Ronnie Wood – Lassù qualcuno mi ama, di Mike Figgis

“Somebody Up There Likes Me” è il racconto della fine della Golden Age del Rock nelle parole del chitarrista degli Stones, un documentario intelligente che però non affonda mai davvero il colpo

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Ronnie Wood – Lassù qualcuno mi ama è la conferma che per Mike Figgis il documentario è il luogo dell’osceno, del “fuori quadro”, utile a indagare ciò che è lontano dallo sguardo dello spettatore.

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Non a caso il suo ultimo progetto si concentra su un buco nero della cultura di massa: Ronnie Wood. Musicista, pittore ma soprattutto chitarrista ritmico nei Rolling Stones dal 1975, Wood ha attraversato gran parte della controcultura inglese degli anni ’70 ma è indubbio che, con il tempo, sia diventato sempre più una figura di sfondo, inghiottito, forse, dal carisma dei compagni di band. Somebody Up There Likes Me si propone l’ambizioso compito di restituire il peso culturale di Ronnie Wood declinando il linguaggio filmico in maniera confacente alla sua personalità.

Figgis innalza dunque quell’understatement che ha caratterizzato la vita del musicista fin dalle origini a forma stilistica alta che modella l’indagine e restituisce un’immagine completa di Wood. All’inizio di Somebody Up There Likes Me Ronnie Wood è intento a dipingere come Picasso nel documentario che gli dedicò Clouzot nel 1956 ma la conversazione intima tra Ronnie Wood e Figgis ricorda soprattutto l’intervista con cui John Lydon, nel 1977, dopo la fine dei Sex Pistols, lasciò intendere quanto il punk fosse una manovra commerciale più che un movimento di ribellione.

Ronnie Wood è una rockstar depotenziata, un chitarrista dallo sguardo cordiale che nel ricostruire la sua biografia separa la verità dalla fiction, osserva con maturità i suoi eccessi, prova a portare alla luce il Great Rock And Roll Swindle, il grande inganno del rock and roll, decostruendo l’epica nata attorno ai gruppi in cui ha militato, raccontando gli uomini dietro al mito, ammettendo la mercificazione dietro a quella musica nella cui genuinità ha sempre creduto.

Sebbene, a tratti, fuori tempo massimo, la presa di posizione di Ronnie Wood è sincera ma soprattutto conserva una scintilla di sovversione nei confronti di un intero immaginario che il documentario amplifica con intelligenza. Figgis costruisce porzioni di intervista usando i tarocchi, a volte si estrania dal discorso e lascia che siano gli amici di Ronnie Wood a conversare con lui e con il tempo struttura uno spazio su cui il musicista traccia le coordinate di una controstoria dello spirito del rock, in cui la realness ricercata dai performer viene posta al centro di un panorama di rovine, frutto di traumi indicibili e nutrita da dipendenze che non hanno nulla del fascino con cui sono raccontate.

Somebody Up There Likes Me affronta criticamente un’icona della cultura di massa come la rockstar, peccato non sia chiaro quanto Figgis creda nell’approccio adottato.  Sul finale tutto rientra in un orizzonte convenzionale: Ronnie Wood racconta il suo periodo di dipendenza dall’alcool con passo composto e sentito ma al contempo non si rende conto di quanto la diegesi stia amplificando una dimensione emotiva a tratti retorica che probabilmente il musicista non ha mai cercato, arrivando a porre il soggetto del documentario in secondo piano perché evidentemente sedotta dall’aura di ospiti d’eccezione come Mick Jagger e Keith Richards.

Il documentario di Figgis è un prodotto concettualmente affascinante che però fallisce nell’assestare il suo l’affondo finale. Dopo un’ora di chiacchiere, Ronnie Wood ha forse fatto pace con la sua identità ma il pubblico ha potuto solo intravedere le oscure profondità del vaso di Pandora che avrebbe potuto scoperchiare, finendo per confrontarsi con esse senza conseguenze.

 

Titolo originale: Somebody Up There Likes Me
Regia: Mike Figgis
Interpreti: Ronnie Wood, Sally Humphreys Wood, Imelda May, Damien Hirst, Mick Jagger
Durata: 82′
Origine: Gran Bretagna, 2019

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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