Sacher Festival 2001: la deriva dell'amore

L’amore all’interno di una rappresentazione plastica dei mutamenti sociali e culturali: è il filo rosso che lega tra loro quasi tutti i corti presentati in questa IV edizione del festival ideato e diretto da Nanni Moretti

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In questa quarta edizione del festival per cortometraggi ideato e “diretto” da Nanni Moretti, quello che risalta maggiormente agli occhi è il filo rosso che lega tra loro quasi tutti corti presentati(circa trenta): la deriva dell’amore all’interno di una rappresentazione plastica dei mutamenti sociali e culturali. Ci sembra questa la chiave di lettura più adatta nel percepire le disarmonie provocate dallo iato, dalla distanza, dall’allontanamento tra il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato(si guardi “Ali” di Erika Pascucci per esempio, con tutte quelle traiettorie di sguardi destinate a non incrociarsi mai), tra il parlare d’amore cercando di razionalizzare certi contenuti emotivi, per scoprirsi poi terribilmente soli, abbandonati(è il caso di “A corto d’amore” di Davide del Degan, interessante in certi tagli bruschi dell’immagine e del “corpo” del protagonista, ma troppo autocompiaciuto di sé). La distanza siderale che intercorre all’interno di questa rappresentazione di un amore(o meglio, contatto fisico)che abdica a sé quale portatore di una negata simbiosi, può comunque essere colmata con il gesto, con l’atto del mimare il movimento, come succede in “Picchio e Pacchio” di Andrea Bezziccheri, nel quale i due giovani protagonisti, giocando a pallavolo, ripianificano in una semantica del gesto sportivo\amoroso, il loro amarsi e cercano di superare quella barriera visibile rappresentata dalla rete a metà campo che impedisce loro di esperire un contatto avulso dal contesto sportivo nel quale sono immersi. Ma spesso l’amore assume anche i connotati, i tratti, del ritrovamento di un corpo che si credeva ormai lontano. E’ il caso dello struggente “Primavera” firmato da Beppe Anderi, in cui si assiste ad una vera e propria palingenesi del sentimento, capace di farsi vibrazione sublime e nascosta di un incontro aspettato da anni(nella sequenza di cui si sta parlando, una madre rivede il figlio dopo chissà quanto tempo che non si incontravano). Un corto questo capace di rischiarare il cuore e di riallacciarsi ad una dinamica emozionale che si serve del solo suono(è praticamente un film muto) per tessere un’elegia del sentimento che riaffiora in forme volutamente fisiche. I vincitori del concorso(si tratta di un ex aequo particolarmente gradito anche dal pubblico votante che ha decretato il successo degli stessi due corti) sono stati “La signorina Holibet” e “Dentro e fuori” e certo è che è stato un verdetto forse un po’ telefonato, ma sicuramente in grado di farsi interprete di una linea di tendenza abbastanza condivisibile. Se infatti “La signorina Holibet” (il regista è Gianluca Iodice) è una interessante variazione sul tema del ritorno(la protagonista, giovane attrice teatrale, torna casa dopo parecchio tempo che mancava in occasione della morte del nonno) incorniciata da una riflessione per certi versi insolita sul “recitare”, “Dentro e fuori” di Giacomo Ciarrapico è una vera e propria chicca capace di rinnovare un certo discorso sull’horror destrutturato(si sta parlando di “Scream” e dei tanti altri epigoni) con una vena dissacrante e corrosiva che non sta mai male. La sola idea di svolgere la storia all’interno di un Luna Park e precisamente dentro un tunnel dell’orrore abitato da persone in carne ed ossa, è segno di una freschezza di idee capace di conciliare all’interno di uno stesso tessuto diegetico diverse tracce narrative(si passa con estrema continuità da un’atmosfera lugubre e tenebrosa, all’aria grottesca ed onirica che si respira all’interno del camerino del protagonista che di tanto in tanto esce fuori a “spaventare” il pubblico pagante che percorre il tunnel). Archiviati comunque i vincitori e qualche altro titolo che ci è parso degno di nota, vorremmo dedicare qualche battuta finale al corto che più di ogni altro è stato capace di suscitare in noi vere emozioni e di elevarsi al di là dei pochi minuti che dura per sedimentarsi nelle nostre menti come il sogno del cinema che più amiamo. Stiamo parlando del corto di Ugo Capolupo “L’ultimo rimasto in piedi”, in cui un ex dipendente dell’Italsider di Bagnoli torna nella fabbrica in cui ha sempre lavorato per impossessarsi dei tanti pezzi dei macchinari ormai in disuso. I pezzi di una vita quindi, di un lavoro, di un tempo che non torna indietro, ma che si porta con sé i detriti di un passato che non vogliamo dimenticare. Il semplice gesto del tornare sui propri passi cercando di ri-impossessarsi dei piccoli frammenti di una vita trascorsa, riesce a sublimarsi in una meditazione commovente ed accorata sul tentativo di restare aggrappati ad una memoria di “cose” in procinto di annullarsi in un oscuro oblio. E quando il protagonista si trova solo, in mezzo all’enorme spazio di una fabbrica ormai vuota, si ha come l’impressione di assistere ad una sorta di riconfigurazione malinconica del proprio vissuto, scandita questa volta dalle voci di fantasmi(uomini, macchine, non importa) che si rincorrono tremanti e silenziose nel chiaroscuro del dopomorte. Nella scissione del corpo in frammenti di storie mai dimenticate.

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