Curioso, beffardo, appassionato, sempre pronto a sperimentare nuovi tecniche e nuovi linguaggi, il cinema di Sam Raimi è un universo di immagini in perenne movimento. Dall’horror al western, dal melò al thriller, i suoi film sono mondi al contempo inquietanti e accattivanti, dove coesistono bene e male, magia e scienza, natura e artificio
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Ripercorrere la cinematografia di Sam Raimi è un’esperienza entusiasmante.
Se all’inizio, questo regista americano, figlio di un commerciante di mobili, ci meraviglia con il suo virtuosismo, con un sperimentalismo portato agli eccessi e una fantasia ingorda, amante delle manipolazioni e delle contaminazioni, in seguito, il suo sguardo ci inebria e ci emoziona con il suo romanticismo, la sua capacità di mescolarsi alla vita, di coglierne gli aspetti più problematici, riuscendo a sviscerare in maniera sempre più prepotente le paure, le nevrosi, ma anche i sogni e le speranze di una società, desiderosa di riaffermare la propria identità, di consolidare i propri valori e di individuare i propri mostri e i luoghi della “mostruosità”.
Con questo non bisogna credere che il cinema di Raimi sia una visione catartica e rassicurante, tutt’altro. Se c’è un filo rosso che annoda tutti i suoi film, da “La Casa” (“The Evil Dead”, 1982) a “Spider Man” (2002) è proprio quello dell’ambivalenza, della coesistenza dei contrari, della moltiplicazione segnica e semantica che costituisce anche la sua cifra stilistica.
Nato a Franklin, negli Stati Uniti, il 23 ottobre 1959, Raimi ha una formazione poliedrica che determinerà tutto il suo cinema. Affascinato dalle immagini fin dall’adolescenza (a tredici anni compra la sua prima cinepresa) e appassionato di cartoni animati e di fumetti (fu un assiduo lettore di comic-books, proprio come Stephen King) studia alla Michigan University, specializzandosi sul Rinascimento italiano e apprende i primi trucchi del mestiere dal documentarista Vern Nobles. Ma Raimi non si è mai preoccupato della “realtà”, bensì degli infiniti modi di rappresentarla, di suggerirla e di trascenderla. La conoscenza della cultura figurativa e delle combinazioni prospettiche hanno fatto di lui, infatti, un cineasta estremamente creativo, ma anche un abile artigiano, consapevole dei propri mezzi espressivi e del potere immaginifico della macchina-cinema. Nel 1981, assieme a Robert Tapert e all’attore Bruce Campbell fonda la casa di produzione “Renaissance Pictures” con cui produce il suo primo film “La Casa”, un horror ricco di citazioni (da Romero al Friedkin de “L’esorcista”) che è diventato un film cult per un’intera generazione e che ha segnato una svolta epocale nel cinema del genere. In quest’occasione, infatti, il regista americano inaugura una nuova tecnica di ripresa, posizionando la camera su una tavola quadrata (battezzata la “Shaky-cam”) e facendola muovere vorticosamente tra i boschi e negli interni della casa maledetta. L’impatto visivo del film fu molto forte, anche perché ne “La Casa” Raimi inscena la lotta tra il bene (Ash/Campbell) e il male (i morti), facendo ricorso a un enorme spargimento di sangue che inquadra in primi piani raccapriccianti e che, assieme ad altri liquidi, andava letteralmente ad inondare lo schermo.
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Al limite con lo splatter, che invece sarà raggiunto nei successivi “La Casa 2” (The Evil Dead II, 1987) e ne “L’armata delle tenebre” (“Army of the Darkness”, 1992), “La Casa” fu acclamato dallo stesso maestro Stephen King (di cui eredita anche l’immaginario Bad Place della provincia americana) “il film più ferocemente originale dell’anno” e, per quanto possa adesso apparire lontano dalla produzione di Raimi, annuncia una serie di elementi linguistici e tematici che verranno da lui sviluppati e rielaborati in maniera decisamente affascinante. Già con questa pellicola si può infatti notare l’attenzione del regista nei confronti della natura e dei suoi elementi (terra, acqua, aria e fuoco). La natura non solo rappresenta un luogo misterioso, abitato da oscure presenze, ma è anche una sorta di mappa, di percorso segnico da interpretare con estrema sensibilità. E se nella trilogia la natura si manifesta con tutta la sua imponenza, “Darkman” (1990) è la natura stessa, l’uomo-ombra che incarna la sua essenza dialettica, l’eroe romantico che si rivela nell’oscurità come gli spiriti delle tenebre, che si muove con il vento e si apposta sui palazzi come un uccello nero, un angelo vendicatore non certo dissimile dai corvi annunciatori di terribili presagi del successivo “Soldi sporchi” (“A Simple Plan, 1997). A dimostrazione dell’onnipresenza della natura nei film di Raimi, basta ricordare l’inizio del più recente “The Gift” (“The Gift” – Il dono, 2001), in cui la macchina da presa attraversa i laghi e i paesaggi della piccola cittadina di provincia (proprio come faceva all’inizio de “La Casa”) dove abita la chiromante Cate Blanchett, una donna che interpreta le carte (anch’esse impresse dal simbolismo degli elementi) così come legge i segni mandati dalla natura. Una creatura abitata, “posseduta” dal bene e dal male, che vede i morti “fluttuare tra i rami” ed avverte nel vento la presenza della nonna e del suo amico Buddy/Giovanni Ribisi, entrambi defunti. Darkman-Liam Neeson, il personaggio senz’altro più vicino a “Spider Man” (anch’egli uomo-natura, anch’egli eroe che lotta per la giustizia), come Bruce Campbell, (vera icona del cinema di Raimi, come mostra la sua partecipazione in gran parte dei suoi film) rimette inoltre in gioco il tema del salvatore, presente anche nel western “Pronti a morire” (“The Quick and the Dead”, 1994).
In questo omaggio al genere spaghetti-western di Sergio Leone, ma anche al cinema di John Ford, con il suo senso morale della legge e il suo manicheismo che ammetteva solo poche varianti (in questo caso incarnate dal prete Russel Crowe), Sharon Stone/Ellen veste i panni di un’indomita pistolera che nel cercare vendetta e giustizia, finisce per ergersi a salvatrice della piccolo villaggio, chiamato non a caso Redemption, dominato dallo strapotere di Herod-Gene Hackman. Anche in quest’occasione, Raimi torna a soffermarsi sul tema della lotta tra bene e male, che è una guerra esterna, ma anche una feroce guerra interna, che a tratti produce metamorfosi e mutazioni oseremo dire cronenberghiane. Nei film di Raimi, niente è ciò che sembra: il cottage americano è l’inferno sulla Terra, la tranquilla provincia americana (come il villaggio sperduto) è un luogo inquietante dove si scatenano gli istinti primordiali più feroci (come non pensare, anche se con qualche forzatura a “Greed” di Stroheim o all’universo ferino di Peckinpah…), la cara mogliettina (la Bridget Fonda di “Soldi sporchi”) è in realtà una diabolica consigliera, l’agente dell’Fbi (ancora in “Soldi sporchi”) è un crudele assassino, la presunta vittima è il colpevole (“The Gift”) e potremo citare ancora molte altre situazioni, compreso “Gioco d’amore” (“For Love of the Game”, 2000) dove Costner/Chapel non è un perdente ma un vincitore…Ma ciò che più colpisce è che i personaggi di Raimi subiscono anche delle trasformazioni fisiche quando prendono consapevolezza di loro stessi, cambiano la loro faccia (Bruce Campbell nella trilogia), sono in cerca di una nuova carne (come lo scienziato Neeson in “Darkman”, che rievoca inevitabilmente Jeff Goldblum de “La Mosca”) e di una nuova vita (Kevin Costner in “Gioco d’amore”). Raimi si sofferma a lungo sui suoi eroi con dei primi piani e dei dettagli che sanno cogliere, come pochi registi al mondo sanno fare, i segni del loro cambiamento, le loro espressioni di rabbia, di dolore o di disapprovazione, i loro sguardi spaventati o commossi, le loro rughe, le loro ferite, le loro menomazioni…
Ed è probabilmente il tempo, un’altra tematica ritornante nello straordinario e poliforme cinema di Raimi, un tempo che egli sa fermare e dilatare, lasciando che le immagini si dispiegano con lentezza, in un afflato umanissimo e umanistico, emblema di una visione sempre partecipe alla vita dei suoi personaggi. Anche tra i vortici de “La Casa”, Raimi è riuscito a soffermarsi sull’orologio, che cessava di far avanzare le sue lancette per annunciare l’ora dei morti, proprio come in “Pronti a morire” (dove l’ultimo, attesissimo e infinitamente lungo rintocco, dava il via al duello mortale), come in “Darkman” (quando l’ultimo movimento del giocattolo uccide l’uomo per creare il mostro, il lynchiano fenomeno da baraccone) e come in “The Gifth” (in cui la sveglia di Cate Blanchett/Annie segnava sempre la stessa tragica ora, quella dell’efferato omicidio). Ma la più toccante considerazione sul tempo, Raimi ce la offre nel film più incompreso della sua carriera, “Gioco d’amore”, dove il cineasta del Michigan dilata il tempo di una partita di baseball per lasciare che le emozioni, le nostalgie e i ricordi di una vita vissuta in nome dell’amore per il gioco, prendono forma e diventano materia intima, palpitante, fragile, come il destino di un uomo in balia degli anni.
Ed proprio per amore del cinema che Sam Raimi lascia che la sua macchina da presa indaghi il volto di Kevin Costner/Bill Chapel, ormai giunto alla consapevolezza della fine della sua carriera, il suo corpo appesantito, le sue rughe, la sua mano posseduta dal “male”. Ma lui, quella mano, al contrario di Bruce Campbell, non se la può amputare: Raimi non gioca più con il dolore e trasforma un melò in un dramma epico a cui il tempo, ci auguriamo, regalerà la considerazione che merita…
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