San Andreas, di Brad Peyton

Quando il terreno cede in un tripudio di caos e distruzione, l’unica roccia solida e intoccabile rimane Dwayne Johnson. Figura monumentale a tal punto da depotenziare l’apocalisse.

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La California è vittima di un devastante terremoto, una forza distruttiva che mette in ginocchio le città simbolo dello stato americano. Ray Gaines (Dwayne Johnson), vigile del fuoco che pilota elicotteri di soccorso, parte alla ricerca disperata della moglie e di sua figlia nella speranza di salvarle.

Il regista Brad Peyton non si allontana minimamente dai tracciati del classico disaster movie, partendo già da quella precondizione di ignoranza che avvolge il mondo del film e in cui dovrebbe immergersi lo spettatore. L’evento unico, arriva inaspettato. O meglio se qualcuno lo aveva previsto, in questo caso il dottor Lawrence (Paul Giamatti), il suo allarme non è stato minimamente ascoltato.

Questa astrazione dal mondo reale (l’attesa del “Big One”) e da quanto già detto in passato sul grande schermo non è solo una condizione necessaria e codificata del cinema americano nell’affrontare gli eventi catastrofici, ma è un chiaro tentativo da parte di Peyton di elevare la figura di Dwayne Johnson oltre ogni confine cinematografico. L’ Hollywood Sign trema e crolla per il sisma, così come l’insegna Riddick si stacca dal grattacielo che la ospitava (non senza qualche vittima). Nello spettacolare e incessante disfacimento di una popolazione e del terreno che abitava, l’ultimo e inossidabile punto di riferimento diventa il fisico sovra-umano di Dwayne Johnson, l’unica roccia (“The rock” non a caso) impassibile anche di fronte al terremoto più intenso mai registrato. E nel caos del movimento geologico, le logiche del cinema e la tanto disprezzata “estetica da videogame” si scontrano e sovrappongono ancora una volta. Sempre ad un passo dal game over, dal minuscolo detrito all’esplosione più fragorosa, ogni singolo pericolo è pensato per tenere sveglia la reattività del giocatore/spettatore, spingendolo verso un’interazione per forza di cose mancante.

Ma San Andreas è anche un continuo Grand Theft Auto dove Ray Gaines abbandona presto il suo elicottero per impossessarsi di qualsiasi mezzo sia funzionale al raggiungimento del suo obiettivo. La libertà d’azione di Dwayne Johnson è veramente l’appropriazione finale del free roaming videoludico, dove tutto è esplorabile nella modalità che si preferisce: basta premere un pulsante.

E per quanto la computer grafica alzi sempre l’asticella dell’intrattenimento possibile, il rischio di rimanere anestetizzati è dietro l’angolo. Il solco incolmabile non è tanto l’allontanarsi delle due faglie tra di loro, ma la distanza netta che separa i protagonisti di San Andreas dal mondo che trema sotto ai loro piedi: l’incapacità di una storia di occupare lo spazio del disastro. In San Andreas c’è un bisogno manifesto di rallentare l’inevitabile, di fermare tutto per permettere ai personaggi di estraniarsi completamente dal contesto e portare avanti un’interazione parallela che relega la distruzione a un mero contorno. San Andreas è ingenua preistoria, un’energica visione di chi l’apocalisse la immagina come qualcosa di edificante e scartabile. Ma per vivere la fine e l’azione possibile dopo di essa, non ci si può affidare alla speranza di una ricostruzione: no, bisogna pregare per qualcosa di più radicale, qualcosa in grado di sommergere tutto e cancellare qualsiasi traccia. L’arrivo del deserto totale

 

Titolo originale: Id

Regia: Brad Peyton

Interpreti: Dwayne Jhonson, Carla Cugino, Alexandra Daddario, Paul Giamatti

Distribuzione: Warner Bros.

Durata: 114′

Origine: Usa 2015

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