SAN SEBASTIAN 53 – "Obaba" e "El aura": l'aria sognante del racconto…

Il festival spagnolo s'è aperto con il nuovo film di Montxo Armendariz, tratto dal libro di Bernardo Atxaga. In concorso anche l'opera seconda di Fabiàn Bielinsky, un heist movie in Patagonia. Dal nostro corrispondente.

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SAN SEBASTIAN – A nord del sud, San Sebastian, città di mare e di terra,,, Basta guardarsi attorno e ti ritrovi addosso i colori contrastati di un oceano che spazza di salsedine e vento la splendida "concha" per battere poi i rigidi palazzi dalle architetture nordiche e dai colori terrigni… La cartolina si riflette del resto nella vocazione del Festival – 53.ma edizione, in questi giorni, ad un sospiro dalla laguna veneziana – che cura e coltiva il cinema di lingua ispanica alla stessa maniera in cui Cannes cresce quello francofono, ma allo stesso tempo sembra avere un canale privilegiato con il cinema nordico. Del resto qui siamo in zona basca (viva Zapatero, che inizia a ragionare con l'ETA, come si legge in questi giorni sulla stampa nazionale), che ha una bella tradizione cinematografica: Victor Erice resta un punto di riferimento, ma da non troppo lontano (Navarra) viene anche Montxo Armendariz, al quale il Festival ha affidato l'inaugurazione con Obaba, il suo nuovo film, alle cui spalle c'è anche il romanzo di successo di un basco come Bernardo Atxaga, scrittore di culto da queste parti che ha visto tradurre i suoi libri in catalano, francese, italiano…  "Storie di Obaba" è edito per noi da Einaudi, il film chissà se verrà distribuito, eppure non sarebbe un brutto incontro sui nostri schermi, anche se parte meglio di come poi conduca la storia tra i tornanti che portano a questo immaginario paese di montagna, dove un giorno giunge con la sua telecamera una studentessa di cinema (ma questa è un'invenzione di sceneggiatura, per tenere insieme i diversi racconti di Atxaga) in cerca di storie per il suo saggio di regia. L'inizio è affascinante, notturno, vagamente onirico, disperso nel bosco tagliato dalle curve della strada su cui la protagonista crede di essersi persa. Poi, dietro un tornante, trova una macchina ferma e un uomo con una lucertola in mano al quale chiede se Obaba è ancora distante: altre 87 curve, le risponde il tizio. E questa non è che la prima di una infinita numerazione delle cose che, scopriremo, è una specie di ossessione degli abitanti del villaggio, eredità lasciata da una maestrina che anni e anni addietro, malinconica d'amore per un uomo che non le scriveva più, si dedicava all'educazione dei bambini.

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L'uomo sulla strada, in realtà, è il proprietario del locale albergo, che per le lucertole ha una passione: le salva dalla strada, le tiene in un capanno, le nutre… A Obaba si dice che se una lucertola ti entra nelle orecchie mentre dormi, ti mangia il cervello e ti fa diventare stupido: sarà per questo che il bambino più intelligente della classe della maestrina è ora un vecchio rimbambito che bada alle lucertole assieme all'uomo dell'albergo… L'unico giovane rimasto nel paese ne è un po' il genius loci : guida la ragazza alla vecchia miniera abbandonata che è il motivo per cui è andata lì, la fa innamorare, le racconta dell'amore che era nato tra la maestrina e il più grande dei suoi alunni, un pastore quasi suo coetaneo, poi partito anche lui… L'intreccio del film sfuma il passato nel presente, cercando un'affabulazione trasversale che però resta più sulla carta che nelle immagini: Montxo Armendariz non tiene il filo della sovrimpressione e racconta con un garbo che non contiene sempre l'ispirazione trasognata e magica cui pure vorrebbe affidarsi. Prevale piuttosto il filo di una indistinta nostalgia per un luogo della fantasia in cui le storie sono avvenute e non avvengono più, dove i conti dei racconti tornavano meglio di quanto tornino sul tavolo di montaggio della protagonista: la quale, infatti, tornata a casa con ore di riprese digitali, inciampa nei videofile dell'Avid e non riesce a chiudere il suo film. Meglio tornare a Obaba, anzi meglio restarci per sempre…


Il fuoritempo e l'assenza a se stessi, del resto, è la traccia comune a un altro film di lingua ispanica visto in concorso in questi primo giorni di San Sebastian 53: El aura, opera seconda dell'argentino Fabiàn Bielinsky, che quattro anni fa aveva esordito con Neue reinas, poi rifatto in america da Clooney & Soderbergh produttori in Criminal. Trattasi di un bel noir tirato sull'amarezza di un disgraziato tornato con trauma epilettico dal fronte delle Falkland: un imbalsamatore d'animali che sopravvive alla sua vita e cerca una improbabile via d'uscita sognando di fare il colpo grosso in una banca. Invece inciamperà per caso in un colpo a un casino disperso nella Patagonia, dopo aver ucciso per spaglio durante una battuta di caccia il proprietario di un alberghetto alla vigilia della rapina al portavalori della casa da gioco che il tizio stava organizzando da anni. L'imbalsamatore s'impossessa dei suoi piani e, passo dopo passo, viene a capo del colpo, trovando i complici e tutto il resto. Non sarà un gioco da ragazzi, ma il film procede per approssimazioni sensitive contrapposte agli schemi dell'heist movie amareggiati in stile polar francese. L'aura del titolo è quella "finestra" che si apre nei sensi del protagonista quando sta per avere uno dei suoi attacchi epilettici, ma il film galleggia un po' tutto in una sensazione extrasensoriale che pare quasi uno strato vischioso spalmato sui personaggi e sui luoghi. Bielinsky regge il filo per più di due ore, con una strana sovrapposizione di spazi e tempi interiori e oggettivi. Un film trasognato e vagamente ipnotico, al quale l'aria indistinta dell'interprete Ricardo Darin aggiunge e toglie qualcosa allo stesso tempo…

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