SAN SEBASTIAN 56 – "Two Legged-Horse", di Samira Makhmalbaf e "Pandora's Box", di Yesim Ustaoglu (Concorso)
Asbe du-pa (Two Legged-Horse), quarto lungometraggio di Samira Makhmalbaf, scritto e montato dal padre Mohsen, è il ritratto spietato e senza via di fuga dell’Afghanistan, e non solo, perché quel luogo è specchio di un massacro globale, oggi. Pandoranin kutusu (Pandora’s Box), co-produzione europea della regista turca Yesim Ustaoglu, da tempo lontana da un film come Viaggio verso il sole (1999), non riesce, invece, a fuggire dal pre-testo per elaborarlo in immagini che non siano solo illustrazione di una diffusa solitudine esistenziale e multi-generazionale, ormai radicata nelle atmosfere esistenzialiste ben confezionate di certo cinema turco d’oggi

Il film, in concorso, è Asbe du-pa (Two Legged-Horse), quarto lungometraggio di Samira Makhmalbaf, scritto e montato (con energia che moltiplica la tensione física già disseminata ovunque) dal padre Mohsen, ritratto spietato e senza via di fuga dell’Afghanistan, e non solo, perché quel luogo è specchio di un massacro globale, oggi. Attraverso l’incontro con due protagonisti che abitano i margini della società, un ragazzo e un bambino. Il ragazzo, deforme, soprattutto nel viso, come mille altri suoi coetanei, o ben più giovani, vive in una sorta di caverna ricavata nella terra, una serie di loculi dai quali i ragazzi escono in cerca di lavori saltuari, al richiamo delle voci dei padroni in cerca di manodopera. Il bambino, senza gambe, vive con il padre che gli cerca qualcuno in grado di fargli da cavallo e portarlo ogni giorno a scuola. La sorella è ancora più handicappata e il padre la porta lontano da casa per farla curare.
Ma quello che si instaurerà fra i due giovani protagonista sarà un rapporto perverso, sado-maso, (auto)distruttivo, senza possibilità di ritorno, una volta avviato quel percorso di reciproca necessità spinta fino al dominio totale (anche con complicità che, fino a un certo punto, smorzano l’orrore). E il film aderisce nella forma al crescendo che coinvolge quei due personaggi (attori non professionisti scelti dopo diverse ricerche da Samira Makhmalbaf), che mettono in scena una sfida alla resistenza sermpre più estrema, appunto come una vera e propria body performance, filmata con camera a mano variabile, inquadrature fosse, carrelli veloci che respirano la fatica dei protagonisti, ormai inseparabili nell’attuazione delle loro pulsioni e derive fisiche. Gesti ripetuti in una dimensione dove il realismo del pre-testo sfuma nella messa in scena di rituali di un cinema della crudeltà che si apre a memorie vicinelontane con le quali il film di Samira Makhmalbaf dialoga. Il ragazzo-cavallo (che sarà imbrigliato, al quale verranno messi una sella e i ferri ai piedi, inchiodandoglieli, come in una crocefissione, che verrà fatto mangiare, fieno, e dormire nella stalla e al quale, ultimo passaggio, sarà posta una vera testa di cavallo che non potrà mai togliere dalla faccia) è corpo pasoliniano, ricorda il protagonista de Il corridore di Amir Naderi e quello de Il ciclista di Mohsen Makhmalbaf (nel senso di un cinema iraniano non nuovo a chiedere ai suoi attori e personaggi esperienze fisiche hard). Con Asbe du-pa Samira Makhmalbaf spinge il suo cinema in una tensione finora mai vista (dopo i suoi primi due film già di notevoli derive e internamenti, La mela e Lavagne, e il troppo patinato Alle cinque della sera, che era la sua prima esplorazione del set-Afghanistan) e realizza il suo Non si uccidono cosi’ anche i cavalli?, esemplare e progressivo avanzamento del suo cinema verso il punto indelebile di uno sfinimento físico e sociale che non avrà fine. Perché l’ultima inquadratura è specchio della prima. La voce di un uomo che chiama al lavoro i ragazzi, che ancora una volta sbucano dalle loro tombe e da quei fumi neri, velenosi, che escono anch’essi dalla terra e dalla polvere. Un altro giorno all’inferno…
