Sanctuary, di Zachary Wigon

Un thriller solido ed intenso, che parte dalle costrizioni spaziali in stile Nodo alla gola, per legare l’interiorità dei protagonisti alla soffocante materialità di un ambiente microcosmico. Concorso

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Nei film incentrati su un’unica location tutto passa attraverso la costrizione spaziale, vero argine e origine delle teorizzazioni formali che li contraddistinguono. Da Nodo alla gola in poi, il confinamento della storia all’interno di quattro mura ha permesso ai filmmaker di interpretarne le atmosfere soffocanti di fondo in termini perlopiù di genere, portandole verso orizzonti diversi a seconda della materia trattata. E sul solco di testi orrorifici come À l’intérieur o Green Room – in cui l’abbattimento dei corpi è conseguenza diretta del loro stesso confinamento – Sanctuary fa della limitazione spaziale lo strumento ideale per indagare l’interiorità dei personaggi/marionette, immersi come sono in un (micro)ambiente da thriller che ne limita ogni fantasia di fuga.

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Tutto parte, allora, da una stanza d’albergo. Un uomo facoltoso (Christopher Abbott) ha appena ereditato il conglomerato aziendale del padre, e si appresta a succedergli alla presidenza. Ma la memoria della torreggiante figura paterna pesa come un macigno sull’inesperto Hal: non ne è all’altezza e affoga le sue insicurezze nei meccanismi di un gioco perverso, in cui la dominatrice Rebecca (Margaret Qualley) è sfogo e origine delle sue fantasie di potere. E nel contesto di una relazione deliberatamente asimmetrica, dove il dominante può diventare in un istante preda del dominato, ecco che la costrizione spaziale assume qui il ruolo di (re)agente creatore, su cui prendono forma tanto le costruzioni iconografiche di Sanctuary quanto le relazione interpersonali che vi si generano all’interno. Confinando le azioni (e le motivazioni) dei personaggi in una spazialità propriamente trasformatrice, Wigon permette così agli ambienti del film di caricarsi di una simbolizzazione talmente pervasiva, da coinvolgere ogni struttura espressiva del racconto. Al punto che nella loro (micro)realtà, le quattro mura della stanza finiscono per sintetizzare l’intero universo emotivo dei protagonisti.

Dal sistema dei personaggi all’uso simbolico dello spazio, in Sanctuary, allora, tutto viaggia sul confine di una realtà microcosmica, che ha nella restrizione il suo strumento primario di rappresentazione. È solamente per la claustrofobia di spazi vuoti e sintetici che Hal e Rebecca rivelano le loro reali intenzioni, ritrovando così un posto nel mondo grazie all’eviscerazione spaziale delle loro emotività. In questo senso il film individua il processo identitario dei suoi protagonisti nella materialità limitante dello spazio contingente, senza riuscire però a declinarla – come vorrebbe fare – in un discorso propriamente politico. Anzi, nel momento in cui le disuguaglianze sociali tra Hal e Rebecca si acuiscono, è proprio lì che il racconto, forse accidentalmente, riafferma l’equilibrio etico e umano tra i due. Democratizzando così le sorti di uno (micro)spazio, che disinnesca nella sua (im)parzialità ogni differenza critica.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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Il voto dei lettori
2 (7 voti)
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