Sanjuro, di Akira Kurosawa

Da un racconto di Yamamoto, gioca con i temi dell’apparenza e dello svelamento. Apparentemente un divertissement, in realtà un’opera di grande complessità. Da oggi in sala in versione restaurata.

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Nel 1961 Kurosawa aveva girato Yojimbo-La sfida del samurai film nel quale Toshiro Mifune interpretava il protagonista, Sanjuro Kuwabatake. Per quella interpretazione l’attore ha vinto la Coppa Volpi come migliore attore al Festival di Venezia di quello stesso anno. Il personaggio rivivrà in Sanjuro dell’anno successivo, conferendo al film la natura di ideale sequel nel quale, peraltro, si ridefiniva il personaggio del solitario protagonista.
Sanjuro, che torna in sala oggi grazie alla Cineteca di Bologna, appartiene di diritto al genere jidai-geki con il quale si identifica quella cinematografia che, contestualizzando storicamente il periodo nel quale si svolge l’azione, pone al centro del racconto la figura dei samurai. In questo film il samurai è Sanjuro, un ronin perché è senza padrone. Se fossimo in un western parleremmo di un cavaliere solitario pronto a vendicare le offese e a difendere i deboli.

In effetti il canovaccio del film sembra partire proprio da queste premesse. Tutto nasce da un intrigo di palazzo, dai sospetti di corruzione in una provincia del Giappone medievale e dal presunto tradimento di un ciambellano. Ma il ronin, che spunta dal nulla nel bel mezzo di un dialogo tra giovani combattenti che vogliono riaffermare la giustizia e la legalità, diventerà centrale nella vicenda e insegnerà molte cose agli inesperti rivoltosi. Ingannati da una falsa evidenza, prendono dapprima le parti di Kikui che appare affidabile diffidando del ciambellano, zio di uno dei ragazzi. Ma Sanjuro insinuerà dei sospetti, dubitando per la sua esperienza della buona fede di Kikui, e si metterà a capo del manipolo dei combattenti per dare battaglia ai pericolosi avversari. Sanjuro saprà mostrare agli inesperti guerrieri in ogni situazione il lato non evidente, l’imprevedibile mossa avversaria, insegnando loro l’arte della guerra, affidandosi all’intuito che abita il pensiero del nemico, insegnando ai suoi giovani e audaci compagni d’arme ciò che solo un terzo occhio sapiente può vedere. I suoi ragionamenti e le sue deduzioni si riveleranno sempre veri e i nove inesperti giovani impareranno a fidarsi di lui. Ma la sua resta un’anima solitaria che vaga nel grande impero del Giappone medievale.
Sanjuro, nato da un soggetto di Shūgorō Yamamoto e dal suo racconto Peaceful Days, appare un film semplice, quasi un divertissement del regista, che infarcisce la sua storia, stringatissima nella narrazione, con colpi di scena che per quanto annunciati conservano un loro effetto di sorpresa. Ma il suo svolgersi e l’intima natura morale del film, caratterizzano il racconto di una complessità insospettabile. In questa storia di guerra fra bande e di tradimenti per conquistare il potere, giocata sul filo di una commedia a tratti romantica, si annidano non solo i concetti morali di giustizia e lealtà, ma si ritrova una efficacia quasi didattica che conferisce al film il tono di inusuali sfumature. Sanjuro appare dunque, anche nella sua struttura narrativa e di contenuto come quello che non è. Ammantato di ironia e sottile umorismo il film non è solo una divertente divagazione del regista nipponico, ma assume le vesti di un cinema morale, didattico e, quindi, meno trascurabile di ciò che appare. Kurosawa gioca con il cinema e indaga con sapienza lati poco esplorati dell’animo umano. Nulla da obiettare se guardando il film si voglia pensare ad un parallelo con le opere più divertenti, ma non meno dense, di Shakespeare.
Tutto il film è giocato sui temi della strategia e della tattica, sulla previsione delle mosse avversarie provando a limitare i danni e sapendo, come dice un personaggio del film, che la migliore spada è quella che non esce dal fodero. Ma nel suo gioco con l’ironia di una invisibile, ma altrettanto prevedibile, mossa avversaria, il film ci riporta ad un tema assai diffuso, quello della (in)visibilità di ciò che ci è vicino.

Dice ad un certo punto lo stesso Sanjuro rivolgendosi ai giovani: Vede male chi è troppo vicino. Andiamogli sotto il naso. È il concetto archetipico rinnovato da Poe nel suo seminale racconto La lettera rubata. È anche il tema, per certi versi, di una gran parte di gialli o noir (uno su tutti Nodo alla gola di Hitchcock) quando la soluzione è più semplice di quella immaginata, quando il colpevole appare innocente.
Con Sanjuro Kurosawa non racconta solo una storia, ancora una volta, morale, ma dà corpo ad un mitico eroe solitario, non racconta solo il suo Giappone e le sue tradizioni, ma gioca con i temi dell’apparenza e dello svelamento, in un susseguirsi di conferme e di inattese soluzioni. L’apparenza dei fatti e la verità divergono e lo sguardo diventa incapace di scrutare davvero, limitandosi a guardare senza sapere cogliere verità lampanti. Nel film tutto si risolve con la semplicità complessa della messa in scena, frutto di progressiva depurazione narrativa, tutto nello splendore di un bianco e nero evocativo poiché in realtà ricco di colore.

 

Titolo originale: Tsubaki Sanjūrō/椿三十郎
Regia: Akira Kurosawa
Interpreti: Toshiro Mifune, Tatsuya Nakadai, Yûzô Kayama, Keiju Kobayashi, Reiko Dan, Yûnosuke Itô, Takashi Shimura, Kamatari Fujiwara, Takako Irie, Masao Shimizu
Distribzione: Cineteca di Bologna
Durata: 96’
Origine: Giappone, 1962

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
Sending
Il voto dei lettori
4 (2 voti)

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