Saturday Night, di Jason Reitman

La rocambolesca messa in onda della prima puntata del Saturday Night Live nel 1975, in un film forse troppo “pulito” per restituire l’anima sovversiva di quella comicità. RoFF19. Grand Public

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Jason Reitman continua a tenere alta la legacy della generazione di suo padre e, dopo averne ereditato il timone della saga di Ghostbusters, giunge finalmente al big bang originario dell’intera mitologia, la messa in onda del Saturday Night Live in tv nel 1975, la trasmissione che da lì a poco avrebbe rivoluzionato interamente il linguaggio stesso della comicità mandando in diretta gli sketch surreali e nonsense di un gruppo di fenomeni provenienti dagli ambienti collegiali USA, tra cui Dan Aykroyd, John Belushi, Chevy Chase, e andando ad inglobare ben presto cineasti come John Landis e appunto lo stesso Ivan Reitman.
E anche se la tradizione del Saturday Night Live, che negli anni ha fatto esordire campioni come Eddie Murphy o Adam Sandler, continua fino ad oggi (in cui la rubrica del Weekend Update, presente sin dal primo episodio, è ora condotta da Colin Jost e Michael Che), si tratta comunque di territorio sacro per chiunque sia cresciuto con quei volti e quelle battute, un materiale che probabilmente può essere affrontato giusto da qualcuno che l’entrata al club ce l’ha per discendenza familiare. Non erano meno “pericolosi” gli Acchiappafantasmi, in effetti, quindi va decisamente dato atto a Jason Reitman di non avere paura di azzardare: Saturday Night racconta in tempo reale i novanta minuti precedenti alla messa in onda della prima puntata, con il patron Lorne Michaels (Gabriel LaBelle) che corre tra i camerini e gli stage per tenere insieme questa squadra di scalmanati, mentre deve fare i conti con le rivalità tra prime donne, gli inciuci sentimentali, i capricci e le stranezze di gente come George Carlin o Andy Kaufman, e la diffidenza della dirigenza del canale televisivo e dei vecchi dinosauri delle trasmissioni in onda negli studi accanto.

La formula del dietro-le-quinte raccontato mentre si svolge è una di quelle più care allo storytelling contemporaneo, obbligato a trasportare ogni rievocazione in un racconto che dia allo spettatore la percezione di stare accadendo al tempo presente, ed è chiaro che i dolly frenetici tra i corridoi del backstage di un teatro di posa, scanditi dal ritmo incalzante di una batteria, parlino una lingua oramai familiare tra Birdman e i pianosequenza affollati e affannosi sella tv “cronofobica” da E.R. a The Bear.
Se però l’operazione Ghostbusters tirava un ponte evidente tra quella generazione di entertainer e la nostra, facendo sostanzialmente incontrare Bill Murray con il “discendente” Paul Rudd, stavolta il tono è tutto rivolto all’elegiaco passato, con il risultato di rendere ancora più impietosa la distanza tra i modelli originali e questo cast troppo pulito, troppo “sistemato”, scelto da Reitman per impersonare quelli che erano al contrario una banda di loser pronti a tutto pur di rovesciare l’ordine costituito dalla gente per bene e dai loro completi in doppiopetto.

Lo script (ad opera del regista insieme a Gil Kenan) funziona meglio allora quando decide di mettere a nudo la fragilità esistenziale di queste figure e dello stesso Michaels: la guerra al buonsenso catodico portata avanti attraverso le armi del demenziale era, prima che “politica”, secondo il film innanzitutto espressione di un profondo disagio emotivo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
Sending
Il voto dei lettori
3.5 (2 voti)
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Sentieriselvaggi21st n.19: cartacea o digitale


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