Sciuscià, di Vittorio De Sica

Primo film italiano a vincere l’Oscar per il miglior film straniero nel 1948, è una pietra miliare del Neorealismo che riproduce amaramente l’Italia alla fine della Seconda guerra mondiale.

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“Pensavo -adesso sì che i bambini ci guardano!- Erano loro a darmi il senso, la misura della distruzione morale del Paese: gli sciuscià.” Vittorio De Sica

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Italia anno zero. Alla fine del secondo conflitto mondiale il nostro paese è letteralmente devastato socialmente e moralmente. Per le strade di Roma, a via Veneto, tanti piccoli lustrascarpe (shoe-shine napoletanizzato in sciuscià) mettono da parte qualche lira per campare se stessi e le loro famiglie. Qualcun altro come Giuseppe (Rinaldo Smordoni) e Pasquale (Franco Interlenghi) cerca di trasformare la propria miseria nel sogno di comprare un cavallo bianco chiamato “Bersagliere”.

Il Neorealismo di De Sica si concentra su due aspetti peculiari: l’identificazione della situazione individuale infantile con quella collettiva di un popolo costretto a scendere a compromessi per la propria sopravvivenza e l’effetto opprimente di un sistema (Famiglia-Stato-Chiesa) che ha un effetto castrante su ogni buona intenzione. In Sciuscià i due piccoli protagonisti, osservando il mondo degli adulti, ne ricavano solo cattivi esempi: insensibilità, pigrizia, menzogna, avidità, cattiveria, egoismo, tradimento. Anche il linguaggio in stretto romanesco ripropone gli stereotipi e le asprezze di quello degli adulti. Se da un lato i ragazzi sono ancora spinti da sentimenti di solidarietà e amicizia, dall’altro padri, madri, fratelli, dottori, avvocati, cartomanti, commissari di polizia, ricettatori, sacerdoti e tutto il personale del carcere minorile (tranne un maestro) trasmettono loro cinismo e disillusione: non è solo un parlare male, è soprattutto un pensare male. Devono crescere in fretta, non ammalarsi, non mostrare debolezze per non essere calpestati da tutti gli altri concorrenti alla sopravvivenza. Una delle scene più forti e simboliche è quella della proiezione del film all’interno del riformatorio: i ragazzi vedono prima un documentario sulla guerra nel Pacifico e poi delle comiche. Le reazioni sono tutte improntate alla consapevolezza di essere privati della libertà e nessuno di loro gode veramente dello spettacolo (solo il ragazzo tisico esclama “il mare!”). Battute dissacranti, sguardi segnati dalla malinconia, finché la pellicola prende fuoco e si scatena il putiferio che porta alla tragedia. Nemmeno il Cinema offre consolazione perché la realtà irrompe violentando la proiezione. I luoghi di Roma vengono trasfigurati: la zona del carcere di San Michele, via Veneto, via del Babuino, il Palazzaccio, il commissariato di Piazza di Campitelli diventano parte di un meccanismo di oppressione che porta i ragazzi a volere rompere le sbarre della prigione. L’immagine iniziale del riformatorio attraversato dalle luci e dalle ombre sembra un quadro di De Chirico: una rappresentazione cupa e malinconica, finisce davvero qui la speranza? Il cavallo “Bersagliere” rappresenta questo alzarsi da terra e guardare le altre persone da una posizione privilegiata, un misto di velocità e potenza, di eleganza e bellezza, fuori da regole e imposizioni. Non è un caso che l’unico momento di felicità pura è proprio quello dei due ragazzi a cavallo per le strade di Roma.

Se è vero che De Sica ha visto e assimilato la lezione di film come The Crowd di King Vidor, Zero in condotta di Jean Vigo e Il monello di Charlie Chaplin, è altrettanto indubitabile l’apporto in sceneggiatura di Cesare Zavattini che si concentra sul periferico, sul dato marginale come momento di “rifunzionalizzazione narrativa” (Casetti e Malavasi) rendendo l’opera sospesa tra il naturalismo degli spazi aperti e l’astrazione dell’ambiente del riformatorio. Pensate alle figure del commissario di polizia, della cartomante, del direttore del carcere (che risponde al saluto fascista!), del medico, dei sacerdoti: sono tutte colte in piccoli dettagli che ne rivelano le debolezze, i rigidi formalismi, la stolta intransigenza. Questo macrocosmo immaturo e immorale trova un corrispettivo perfetto nel microcosmo carcerario dove i piccoli detenuti ripropongono vessazioni e abusi di potere, bugie e opportunismi, bullismi e tradimenti. Il lungo segmento nel riformatorio serve a De Sica a costruire il dramma di una coppia di ragazzi che prima viene separata brutalmente in celle diverse (il momento della separazione è straziante) e poi, attraverso le meschinità dei secondini e dei compagni di cella, viene minata nel sentimento di fiducia reciproca. I due finiranno uno contro l’altro raggirati e manipolati da cattivi maestri. De Sica ritrae i ragazzi nudi sotto la doccia, ne registra le lacrime e i moti di rabbia, frustrazioni e disperazioni, e li guida verso una recitazione spontanea e mai artificiosa. È anche magistrale la scena del processo dove viene messa alla berlina la vuota eloquenza e la falsa retorica di avvocati e giudici che sembrano così lontani dai problemi della vita reale. L’unico momento in cui Sciuscià sembra perdere un po’ di questa magia narrativa è quando il piccolo Giuseppe incontra la madre: sarà per la scelta del primo piano, sarà per la scarsa alchimia tra i due personaggi, ma questa scena perde molta potenza diventando quasi una appendice inutile.

Primo film italiano a vincere l’Oscar per il miglior film straniero nel 1948, commentato dalle musiche enfatiche di Alessandro Cicognini, Sciuscià è una pietra miliare del Neorealismo che riproduce amaramente la situazione italiana alla fine della Seconda Guerra Mondiale. I bambini sono le prime vittime di questi tempi sbandati e, a differenza di Ladri di biciclette dove riusciranno a dare una lezione morale al mondo traviato degli adulti, qui ancora subiscono il peso di un futuro in cui la speranza scappa via come un cavallo bianco di fronte all’orrore di una morte annunciata.

 

Premio Oscar come miglior film straniero nel 1948

 

Regia: Vittorio De Sica
Interpreti: Franco Interlenghi, Rinaldo Smordoni, Aniello Mele, Bruno Ortenzi, Emilio Cigoli, Leo Garavaglia, Gino Saltamerenda, Anna Pedoni
Distribuzione: Cineteca di Bologna
Durata: 87′
Origine: Italia, 1946

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
4 (3 voti)
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