SCONFINAMENTI – Cinema al singolare femminile

… Essere catturati dall'elemento femminile, in un desiderio infinito sempre rinnovato. E' questa relazione che nasce con ciò che (sempre…) si sottrae a rendere la femminilità il "luogo" di uno sguardo esule e a dare testimonianza di una presenza pervasiva e ad un tempo inaccessibile. Sempre a venire

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Incontro

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Mai io ti vedrò e diversa un'altra volta
Perché come passante
Perché come donna vestita di cotone
Io e te ho vista che
Gettate le bottiglie nel contenitore
Salita sul marciapiede
Leggera dileguata come affidata alla sera
Eri solo movimento e sei
Solo andatura e neanche un batter d'occhio o che
Senza che ci si sia incontrati
E i nostri occhi solo salutati e come sarebbe
Possibile se così fugaci, perché tu non persa
Sei con te o altrove
Stata e sei un oscillar di braccia, di capelli
Un'esitazione ancora e poi


(Michael Donhauser)

… E poi come in un fremito che spazza via ogni cosa così le tracce del mondo riflesso dai tuoi occhi annegano in una profondità equorea (o forse solo immaginata tale…); si dileguano dinanzi al nostro annaspare, alla tua dolce, indifferente lontananza, alla nostra solitudine senza radici, alla tua esitante fissità, alla nostra immobilità priva di peccato e di redenzione. Estenuante e insieme struggente volersi riposare all'ombra di un cuore di donna; riconoscere, per sempre, la deriva di quelle vanità che ci fanno esistere, riscattata d'un colpo da un battito delle tue palpebre che, come per incanto, dischiudono il mondo, separato da noi, a una nuova visione. Più viva.


Il corpo femminile si abbandona alla superficie delle immagini, il suo incarnato è a fatica separabile da esse; donato ai nostri occhi, impossibilitati a trattenerlo, mentre svanisce nel suo continuo ritrarsi altrove.

Il cinema stesso come continuo gioco d'amore, sembra essere l'espressione di una femminilità seducente che ci costringe a inseguirla nella sua alterità, in quel movimento che la espone (e la sottrae…) al nostro sguardo. "E' come un gioco con qualcosa che si sottrae, e un gioco assolutamente senza progetto né piano, non con ciò che può diventare nostro e identificarsi con noi, ma con qualcosa d'altro, sempre altro, sempre inaccessibile, sempre a venire" (Emmanuel Levinas, Il tempo e l'altro). Come non ricordare qui il cinema di John Cassavetes e con esso l'indimenticabile corpo di Gena Rowlands "corpo ontologico che sfugge a ogni determinazione formale, scultura vivente, carnale, bruciante" come lo ha definito Thierry Jousse nella sua monografia sul cineasta americano.

Cinema dunque al singolare femminile. In Miami vice, The departed, Lady in the water e Inland Empire si è come catturati dall'elemento femminile, in un desiderio infinito sempre rinnovato. E' questa relazione che nasce con ciò che (sempre…) si sottrae a rendere la femminilità il "luogo" di uno sguardo esule e a dare testimonianza di una presenza pervasiva e ad un tempo inaccessibile. Sempre a venire. Segno che si innerva nel personaggio di Isabella (Gong Li) in Miami Vice di Michael Mann. Un meraviglioso corpo di donna che tiene unito, nel suo continuo allontanarsi, il tessuto di un film che altrimenti si smaglierebbe davanti agli occhi nella sua eccentricità, nella sua mancanza di un centro cui aggrapparsi. Mann attraverso Isabella insegue l'indefinibilità di un sentimento che vagheggia un incontro che diviene attesa inesauribile. Non si può non attendere il e al desiderio di un incontro d'amore, anche se ne conoscessimo l'impossibilità.


E ancora quella dolente, disperata malinconia che sembra trasparire dalla remissiva fragilità di Madolyn (Vera Farmiga) in The departed di Martin Scorsese. Madolyn è un corpo lontano dal gioco (irrisolto) delle identità e insieme una presenza avvolta da una incantevole ambiguità fatta di angoscia e di abbandono. Un incarnato paziente (visitato dal pathos…) nel suo vivere una congiunzione imperfetta che pure coglie la profonda essenza di un avvicinamento. Madolyn è una creatura che appare ancora iscritta nel destino dell'uomo sebbene esso non appaia più rivolto al suo amore.


Come dimenticare il corpo diafano e pervasivo di Story (Bryce Dallas Howard) in Lady in the water, corpo misterioso e insieme taumaturgico, che tocca il cuore e permette di poter guarire dalle proprie ferite. Story proviene da un altrove (forse solo desiderato…) che sembra sfrangiare i contorni del cinema per restituirci il mondo. Lei così indifesa tende la mano verso tutti gli abitanti del condominio per risvegliarli alla vita, per restituire loro la speranza delle attese e dell'esistenza. Proprio come Ivy in The village, Story ci conduce nel cuore della visione, permettendoci di coglierne l'alterità attraverso i suoi occhi (non più sottratti alla luce). O il corpo di Nikki/Susan (Laura Dern) in Inland Empire di David Lynch, corpo avvolto come in un bozzolo che non lascia passare la luce, quella luce, elemento di disturbo (come ha scritto Massimo Causo), che tuttavia permette a Lynch di evocare la storia di un mistero che si svela intorno al pudore di una donna. Per dirla ancora con Levinas "la femminilità – e forse con essa il cinema (al singolare femminile…) – non si realizza come essente in una trascendenza verso la luce, ma nel pudore".

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