SCONFINAMENTI – Il corpo del desiderio

Nel cinema degli ultimi anni ciò che cerchiamo con avidità oculare quasi ossessiva è il corpo. Non “un” corpo, ma “il” corpo. Un corpo minato dall’ombra di una minacciosa dissolvenza, in perenne squilibrio tra un esserci e un “non-essere-più”…

--------------------------------------------------------------
CORSO DI SCENEGGIATURA ONLINE DAL 6 MAGGIO

--------------------------------------------------------------

Inutile nascondersi dietro paraventi inopportuni e francamente retorici: nel cinema degli ultimi anni ciò che cerchiamo con avidità oculare quasi ossessiva è il corpo. Attenzione non “un” corpo, ma “il” corpo. La singolarità inquietante del presente assunto si muove nella chiara direzione di un lento e progressivo svuotamento di tutto ciò che vada in senso opposto. Abbiamo semplicemente bisogno di un corpo in cui ritrovare il senso dell’appartenenza alla realtà. Non stiamo blaterando di ipotesi trascendentali, né immanentistiche, ma ci sforziamo di mettere a nudo( impresa impossibile, fallita, mancata già in partenza) quel disagio sempre più imbarazzante che proviamo di fronte alla virtualizzazione dell’immagine, dell’uomo. Del corpo appunto. La lacerazione conflittuale presente all’interno dell’esserci, assume qui le pieghe quasi tragiche di una mancanza, di una lacuna ormai apparentemente incolmabile. Stiamo parlando di un’ontologia manca(nte)ta della dimensione corporea. Un corpo occultato, rimosso, obliato nelle secche di un indeterminismo percettivo che dovrebbe farci riflettere sul nostro mancarci continuamente quale portatori di una coscienza di sé che non vada al di là del dato corporeo, ma che rimanga invece ancorata ad una vera e propria sintomatologia dei sensi. Il cinema ci ha da sempre abituato a riflettere sulla percezione del nostro corpo riflesso nel chiarore del grande schermo e al tempo stesso ci ha abituato a renderci parte integrante di quel legame simbiotico che ci lega con quella sublime carne del visibile di cui siamo parte. Nel bene e nel male, anche quando avvicinandoci a quel puntinismo abbagliante irradiato da una luce eternamente fuoricampo, il nostro esserci assomiglia tanto ad un continuo mancare quel senso in più che renderebbe piena, totale, tragicamente definitiva la comprensione del testo luminoso che ci si snoda davanti.

--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE UNA SERIE TV DALL’8 MAGGIO

--------------------------------------------------------------
La storia del cinema è la storia di un corpo abitato dalla orizzontalità di sguardi sempre uguali, sempre diversi, capaci di poter accedere a quell’infinitesima porzione di reale riprodotta tratteggiando una riconfigurazione sognante\astratta\disperata di tutto ciò che nel momento fruitivo gode la pienezza della luce nell’oscurità della sala. Tutto ciò è stato, è e continuerà ad essere materiale per i nostri sogni, artificio ardente con cui misurare l’intensità del nostro desiderio di vedere\possedere un corpo per slanciarsi al di là della sola visione. Ecco perché oggi, tornando alla “sententia” iniziale, abbiamo bisogno di un corpo, ma di un corpo capace di riconsegnarci un qualcosa che ci appartiene, lambendo quel sottile velo di estraneità che ci divide irreparabilmente dallo schermo\corpo cinema. Viene in mente una delle sublimi sequenze dell’ultimo film di Ferreri, “Nitrato d’argento” in cui una spettatrice, irretita dall’occhio della Bergman di “Europa 51’”(e quale altro testo filmico può meglio offrirsi quale ricettacolo disperato della ricerca di un corpo?), mima l’atto di abbracciare la sua immagine, confondendo, non a caso, la propria sagoma corporea con quella riflessa dal grande schermo. Esempio folgorante questo del fatto che nella percezione\visione del film è proprio il gioco a trionfare: stiamo parlando di un’alternanza mimetica di soggetto\oggetto, forma\contenuto, binomi inscindibili da una dialettica delle parti in gioco scioglibile con l’entrata nel campo visuale di un’altra fisicità che si sovrasti a quella diegetica, proveniente dal soggetto senziente stesso. E’ il corpo che mettiamo in gioco(incantevole temine che dice tutto sulla visione, sull’immagine, sul riscontro oculare di quest’ultima) nella visione ed è sempre un corpo a cui ci si riferisce nell’esercizio di sovrapposizione visuale tra uno stato e l’altro della materia( desiderio riflettente di avere un corpo, viverlo e perché no, magari mancarlo all’ultimo momento\frame di visione). L’aderenza materiale perforata da occhiate tangenti i bordi filmici ci spinge così alla formulazione di un assioma non definitivo, ma per certi versi finale: il cinema si nutre del corpo, è corpo. E corpo in fondo è il sogno di un cinema che aspettiamo ogni volta come fosse l’ultima, tanto è il godimento totale che ci procura. Lynch\Ferrara\Cronemner|Scorsese\Cimino\Coen\ Carpenter\Bigelow\Garrell\Raimi\De Palma\Eastwood. Cineasti del corpo, scultori della materia filmica tendente ad una postmodernità del tratto tale da costituire paradossalmente l’apoteosi di un’inveterata classicità da farci gridare ogni volta al miracolo. Un miracolo che si ripete quasi sempre, ma al quale ormai non si fa nemmeno più caso, tanto alta è la posta che di volta in volta viene messa in gioco dalle loro opere. Il corpo invecchiato, stanco, ma non ancora arenatosi nell’oblio della terza età (e forse della morte) di Alvin Straight (“nomen omen”), i corpi cronemberghiani in bilico tra un esserci ora ed un valicare un oltre che li porta ad essere “già” avanti rispetto alle semplici mutazioni inorganiche dell’oggi; il corpo malato, distrutto del cinema di Abel Ferrara, in bilico tra una palingenesi miracolosa della sostanza vitale ed un decadimento definitivo nel blackout oscuro del peccato(“The bad lietanaunt” è in questo senso il film più decisivo degli ultimi vent’anni), i corpi sconfitti di Scorsese, i corpi cumulativi dei Coen( cumulazione come pratica derivante dall’esser composti da materiali provenienti da altri territori cinematografici); il corpo di Carpenter, eterna “cosa” non ben identificata, pronta ad assumere ogni possibile forma e materia(variazione continua sul monotema hawksiano? non solo). Potremmo continuare(Eastwood poi con il suo cinema fatto di corpi in bilico tra classicismo maledetto e reinvenzione del genere, meriterebbe un discorso apposito), ma ci basti qui considerare un attimo quel sublime, lancinante, film teorico, ma al tempo stesso vitale, appassionante come pochi altri che per l’appunto “For the love of game”, in cui il corpo viene letteralmente messo in gioco con coraggio, amore per la sfida, (in)coscienza del proprio limite. Un corpo giocato quello di Costner, nella finzione come nella vita, emblema perfetto (insieme a quello “eterno tornante” di Stallone) dell’intero linguaggio parlato, urlato, dal nostro desiderio, dal nostro occhio. Troppo presto, troppo tardi (Straub Hullet li tratteremo forse in un cinema del futuro\futuro del cinema tanto distanti e inenarrabili sono rispetti all’oggi) per parlare del reale oggetto della nostra mancata analisi sull’assenza del corpo in tanto cinema d’oggi. Appena in tempo però forse per accennare alla potenza deflagratoria del titolo, un desiderio del corpo che nell’ultimo Spielberg diventa volontà di rifondare il proprio statuto di automa (apparentemente) senza sentimenti, all’insegna di un decoupage frammentato in cui invertire l’idea stessa di struttura organica/cinematografica. Desiderio di un corpo, che è al tempo stesso un desiderarsi, un lasciarsi oltrepassare dalla visione pura di eterni frammenti di corpi mai vissuti, per sprofondare nel frame nero dell’abbandono, della perdita, dell’obnubilamento delle proprie sostanze vitali. Con “A.I.” Spielberg filma il desiderio di un corpo cinematografico finalmente riassumibile sotto forma di visione esaustiva e per certi versi esauriente di tutto il suo cinema, un’opera che sconfina nel segno di una dolce ossessione vitale( quella del racconto per il racconto, dell’armonia delle parti per la comprensione risolutiva del tutto) per tutto ciò che pulsa di sangue proprio, una vera e propria dichiarazione d’amore nei confronti di quella trasformazione/evoluzione da automa disperato e finito a corpo vitale, un corpo infine minato dall’ombra di una minacciosa dissolvenza, in perenne squilibrio tra un esserci racchiuso nella sfera di ontologica forza primaria dell’esistenza e un non-essere-più dalle apparenze comunque gelide e controllate. Un’opera imperfetta forse, sofferente di una continua perdita di sé proprio per il bruciare ogni tipo di manierismo retorico sullo smarrimento di una certa innocenza con la forza del melodramma che forse non sa nemmeno di essere tale, tanto smisurata, innocente e vitale è la forza con cui si riallaccia idealmente a quell’estetica classica e per certi versi spudorata che non teme la visibilità della sofferenza, del pianto, dell’annichilimento solo apparente dell’essere in gioco/Vita. L’automatizzazione di tutto ciò resta un’ombra scongiurata già in partenza, il quadro prospettico viene altresì animato da corpi capaci di produrre nella singolarità della loro accezione semantica una polisemia tale di significanti da far implodere la Visione con una indifferenziata massa di carne in attesa di una resurrezione possibile, già tracciata in lampi segnici dalle magliature perfette. Ed è proprio nel mezzo di una Visione segnata da un delirio costruttivista fallito in partenza (un corpo perdente forse proprio perché montato troppo bene) che riusciamo a scorgere in filigrana l’essenza di un corpo finalmente riconciliato con sé.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------
--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array