SCONFINAMENTI – Madonna che silenzio c'è stasera

Perché quest'articolo? Perché noi il cinema lo amiamo nella sua essenzialità (Rossellini), nella volontà di chi desidera affondare con esso (Cimino), nella forza di chi ha saputo ritrarre la carne delle immagini (Cassavetes), ma anche nella sua imperfezione che in Francesco Nuti ha saputo regalarci alcune tracce da ricomporre in un personale montaggio…

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… E se tutto fosse soltanto un'illusione dei sensi? Tutto quello che ci circonda "contenuto" dalle immagini, realizzato da esse, il nostro sguardo accecato dal dispositivo di riproduzione del cinema, illuso dal succedersi di 24 fotogrammi al secondo, il battere di un colpo d'occhio che allontana l'immobilità che regna nello specchio della rappresentazione, ma il tempo, scompigliando con la sua inquietudine tale immobilità, ci costringe a fare i conti con la vita e a scoprirne la precarietà nel suo essere legata allo scorrere di immagini che la negano mentre la raccontano, strappandoci ogni sicurezza e riconsegnandoci al mondo. Niente ci difende dalla nudità della nostra vita, nemmeno il cerchio delle immagini con cui cerchiamo di colmare quella distanza che separa l'esistere dall'essere, il loro tessuto si smaglia, si lacera, sfilacciato dalla vita che ci costringe a sentire la nostra miopia, non come un difetto della vista, ma come una continua mancanza seminata nel cuore del nostro stesso essere.

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Ospiti della vita dovremmo saper imparare ad abitare le cose (forse anche le immagini…) con leggerezza, come uomini sospesi nell'aria, ricordate gli omini dei quadri di Chagall sospesi a metà tra il cielo e la terra, o Jacques Tatì alias Monsieur Hulot che scivola indenne "sul ghiaccio sottile della vita moderna" o, ancora, la camminata con cui Chaplin/Charlot, nel finale di Tempi moderni, si allontana con le immagini del suo cinema dai nostri occhi…? Nomadi in continuo movimento dentro e fuori se stessi e il mondo ricreato per loro e per noi dall'occhio e dallo spirito, "dalla sorgente impalpabile delle sensazioni", esuli proprio come lo sguardo dovrebbe esserlo di fronte al cinema, alle immagini create: atto d'amore grazie al quale le stesse sembrano voler baciare la vita e colmare la loro distanza da essa; come il ricordo che più che un richiamare alla memoria il tempo passato ci sembra possa permetterci di vedere quell'intervallo che aiuta il cuore a raccordare i movimenti del proprio sentire tra un prima e un dopo. In questa distanza a farsi comprendere è il silenzio, non quello inghiottito nel nero di una dissolvenza indifferente ad ogni coloritura e alle sue sfumature, ma quello che permette di ripensare al vedere come un avere a distanza. Quel vedere che ci permette di essere (ancora una volta…) con il cinema e con la vita.


Quella stessa distanza cui sembra offrirsi oggi il cinema di Francesco Nuti, quasi leggero di fronte alla gravità della sua vita privata, un filmare il suo che, se da un lato non è mai riuscito a diventare un elemento vivo e necessario, dall'altro, ha saputo lasciare tracce ricche di risonanze: le note di nostalgia e di malinconia, sia pure nel loro esasperato sentimentalismo, che accompagnano Tutta colpa del paradiso (1985), insieme allo splendido disegno del paesaggio alpino in cui Nuti colloca la vicenda, la Genova invernale e notturna di Stregati (1986), le invenzioni satiriche che reggono la travagliata storia d'amore di Renzo e Margherita in Donne con le gonne (1991), il ritmo alacre e sospeso del viaggio tutto aperto a imprevedibili incontri di OcchioPinocchio del1994 (film costato circa 18 miliardi di vecchie lire), le rozze immaginazioni di sapore alquanto meccanico che diventano vivace e pittoresco gioco di grottesche marionette in Caruso Pascoski (1988) e nel Signor Quindicipalle (1998); un racconto per immagini che sembra trascorrere leggero, attento agli esiti enfatici, ma anche alla sostanza umana della sua materia, trattata spesso con un gusto teatrale e novellistico, tipicamente toscano, fino alla nota buffonesca, ma l'immagine di Nuti che ci piace ricordare è quella di lui immerso nella luce e nell'arsura del deserto marocchino, nel finale di Willy Signori e vengo da lontano, una sequenza che appare davvero libera e aliena da ogni compiacimento meramente narcisistico e appariscente.


Allora, perché quest'articolo? Perché noi il cinema lo amiamo nella sua essenzialità (Rossellini), nella volontà di chi desidera affondare con esso (Cimino), nella forza di chi ha saputo ritrarre la carne delle immagini (Cassavetes), ma anche nella sua imperfezione che in Francesco Nuti ha saputo regalarci alcune tracce da ricomporre in un personale montaggio… Forse il silenzio che oggi c'è attorno al suo cinema ci aiuta meglio a comprenderlo e a vederlo.

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