Scrittura barocca e derive di una generazione: "Pater familias", di Francesco Patierno

"Pater Familias" è sorprendente, ma per il suo sguardo sulle cose. L'uso dei fuori fuoco, la centralità dei corpi e la loro dialettica con gli ambienti, il montaggio, la musica come elemento che irrompe nel "rumore" dei luoghi, fanno la modernità di questo film

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Vuole, Pater Familias di Francesco Patierno, rievocare negli intenti il cinema di "impegno"? Forse. D'altrocanto una storia che racconta di famiglie polverizzate nel sud urbano degradato e degradante non può sfuggire a implicazioni di carattere sociale. L'approccio puramente ideologico, però, rischia di distrarre dal cuore del film, che è espressivo e non narrativo. Da un punto di vista sociologico è interessante notare come Patierno, sulla scorta dell'omonimo romanzo di riferimento (scritto da Massimo Cacciapuoti), ritagli sullo schermo la deriva di una generazione non definita dall'anagrafe ma dalla geografia metropolitana: avere diciott'anni in una periferia devastata che non offre alcuno sbocco se non delinquenziale. Questo il territorio su cui articolare le diverse situazioni, da rileggere secondo due chiavi di lettura. La prima è psicanalitica: l'assenza della funzione paterna da parte di padri-mostri è sotterranea concausa della disintegrazione dei valori umani e sociali. La seconda di carattere umanistico-cattolico. Il prete di trincea, la suora come unica voce "morale" del contesto… Si può discutere sul parallelismo senza padre-senza Dio e su ciò che ne consegue, ma è con una cultura di stampo cattolico che ci tocca fare i conti, che lo si voglia o meno. D'altronde, l'idea di un Mean Streets made in Casoria non è così estranea al film e non ci sembra affatto da buttare.

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Tuttavia non è per questi motivi che Pater Familias è sorprendente, ma per il suo sguardo sulle cose. Patierno ha uno stile di scrittura barocco (ed è per questo coraggioso, considerati i gusti piatti del nostro pubblico), e alterna così scelte marcatissime, al limite dell'enfasi (come nell'uso massiccio del ralenti) ad altre più sottintese (la macchina da presa, come è ormai noto, ha spesso "spiato" gli attori e le comparse senza che se ne accorgessero). È un iperrealismo linguistico che non vorrei fosse scambiato per furbizia modaiola. Il fatto che il regista sia autore di spot potrebbe far pensare male, altresì il suo passato di documentarista evidenzia come possano convivere, in una sola ispirazione, matrici espressive diverse e opposte. L'uso dei fuori fuoco, la centralità dei corpi e la loro dialettica con gli ambienti, il montaggio, la musica come elemento che irrompe nel "rumore" dei luoghi, fanno la modernità di questo film.

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