Scusate il ritardo, di Massimo Troisi

Sono le oscurità a far intravedere altre possibilità per il cinema di Troisi. La volontà di mettersi a nudo e Napoli che viene rappresentata dai suoi stessi personaggi. Stanotte, ore 0.20, Rete 4

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Vincenzo è un giovane napoletano. Nonostante sia ormai trentenne, continua ad abitare con i genitori. Conosce Anna, ex-compagna di scuola della sorella. I due iniziano a frequentarsi: Vincenzo è impacciato. Anna invece cerca sicurezze, rapporti stabili e  profondi. Intanto Vincenzo ‘subisce’ gli sfoghi del suo migliore amico, Tonino, che è stato lasciato dalla fidanzata, e che lo costringe a estenuanti maratone d’ascolto. Attorno, c’è la sua famiglia: la madre, la sorella, la nipotina ed il fratello Alfredo, con il quale il protagonista ha un rapporto complesso di repulsione/ammirazione.

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La storia con Anna continua sempre più stancamente. Il rapporto sembra ormai fermarsi al puro scambio di piacere fisico. Vincenzo non sa dare quella sicurezza che lei vorrebbe: rimane superficiale, disattentto, poco propenso al dialogo. Perciò Anna decide di separarsi, almeno per qualche tempo, da lui. Sarà Tonino a chiederle di ritornare. Lei accetta, ma solo per chiarire i suoi dubbi, le sue incertezze.

Vincenzo, che ormai ha capito quanto gli sia essenziale Anna, decide di accettare tutto, anche un amore ‘falso’, purchè lei resti.

È stato lo stesso Troisi a definire Scusate il ritardo come il film ‘della paura’. Eppure, è il suo prodotto più riuscito, quello che scava con maggiore forza, con maggiore violenza nel corpo e nell’animo dell’attore.

Fuori dalla logica che vede nel ‘bel film’ un prodotto gradevole, perfettamente girato, ‘compiuto’ e ‘circolare’, Scusate il ritardo possiede temi ed uno stile pieno di oscurità, terribilmente liquido, d’un nero totale.

Il cartello pubblicitario mostrava un Troisi fradicio, sotto la pioggia: il messaggio lì presente rappresentava bene il film.

Vincenzo, il personaggio di Troisi, è proprio questo: un uomo sotto la pioggia, completamente bagnato ed indifeso nei confronti di certi eventi – che vorrebbe risolvere, che pure gli piacerebbe superare.

L’attore-regista nasconde una sorta di autorialità quando continua a mettere se stesso al centro dei propri interessi: è questa una formula stilistica che rimanda con forza (assieme ad altre caratteristiche) ad uno dei più autoriali comici esistenti, al Woody Allen dei primi, incredibili film.

Tema centrale è l’amore, il sentimento, la donna. Queste parole si confondono, s’intrecciano. Vincenzo/Troisi cerca di capire, di darsi una spiegazione, un po’ come fanno i personaggi di Allen, in altri modi, con altro carattere.

Qui, evidentemente, non siamo a New York e l’ambiente rappresentato da Troisi non è quello intellettuale-borghese. È un ambiente ‘quotidiano’, minimalista, caratterizzato da piccoli eventi che incidono si e no sui familiari, sui propri amici (e solo su quelli più intimi). È una sorta di Neorealismo privo di eroismi, tutto interno, che cerca di operare su se stesso.

Sono le oscurità di questo film a far intravedere altre possibilità per il cinema di Troisi: la volontà di mettersi a nudo, la capacità di fuggire qualunque cosa che sia banale (anche a costo di non soddisfare le aspettative del pubblico), la ‘paura’ tutta esibita di un film che seguiva l’exploit di Ricomincio da tre, testimoniano la capacità di dire dell’altro, di portare avanti discorsi più complessi e profondi, che mettano in gioco con potenza le proprie angosce, i propri incubi.

L’incapacità di uscire dal chiuso di una stanza esaspera la claustrofobia di inquadrature sempre molto strette che fanno il paio con quelle di una città (Napoli, certo) appena intuita, ‘caratterizzata’ da una pioggia persistente, da notti fredde.

Il rapporto con Napoli che Troisi fa emergere è inessenziale: Napoli non compare, quasi non c’è, ma non perchè viene fuggita o ignorata. Più semplicemente, volendo evitare qualsiasi banalizzazione, i personaggi interpretati da Troisi finiscono per portarsela dentro. Con prepotenza, questo si.

E del resto, giocando e recitando su se stesso, non potrebbe essere diversamente. Non si tratta di semplice autobiografismo, è invece qualcosa di diverso, che ha a che fare col proprio corpo e con lo studio di se stessi. Come dire: il film è autobiografico, non la vita, le azioni, i sentimenti dei personaggi. È il film ad esprimere le convinzioni e i dubbi d’un uomo in bilico. Quasi volesse proporre una casistica, i rapporti ‘sentimentali’ che vivono in questo film assumono sembianze ben precise: fra gli altri, emerge la figura di Tonino, l’amico intimo, il ‘vinto d’amore’, colui che non sa darsi pace perchè la fidanzata lo ha lasciato. È disperato e Vincenzo non può far altro di ascoltare le sue lamentazioni ossessive. Ovviamente questi eccessi non soddisfano Vincenzo: la sua ‘filosofia’ è racchiusa tutta nella battuta che, fra un giorno da leone e cento da pecora, preferirebbe viverne cinquanta da orsacchiotto.

Eccessivo è pure il rapporto che il fratello intrattiene con le donne: Deborah, che lo aspetta al telefono, è lasciata ad attendere con noncuranza e strafottenza.

Alfredo e Vincenzo rappresentano le due facce della stessa medaglia: entrambi non riescono a dare, per disattenzione o per incapacità. Alfredo, d’altra parte, ‘nasconde’ anche dell’altro: è un attore noto, un comico affermato, un Troisi possibile (che forse, preferisce vivere nei panni stretti di Vincenzo pur di non ritrovarsi nell’artificiosità e nella freddezza d’un Alfredo).

‘Fidanzati’ sono anche gli amici di Anna (la donna della quale Vincenzo s’innamora). Anche questi non sembrano riscuotere le simpatie di Troisi. Il loro fare cose ‘da fidanzati” è irritante: si baciano sulla spiaggia mettendo a disagio chi è là e non sa che dire. Se Tonino era l’esasperazione del sentimento ed Alfredo, in qualche modo, ne testimoniava la freddezza, i due amici ne sintetizzano la banalità, l’ottuso conformismo, l’incapacità di dire, fare e provare del nuovo.

Anna, invece è il tentativo di andare a fondo, di cercare un rapporto unico e totalizzante, spontaneo e forte.

Fuggendo dagli estremismi e le ovvietà nelle manifestazioni d’amore, Vincenzo mette in evidenza tutta la sua inadeguatezza davanti a una proposta d’amore ‘totale’. Non riesce a colmare, non sa che dire. In questo sentimento, quasi annega. Così come ‘annegava’ sotto la pioggia ed alle parole di Tonino, l’inguaribile amico che nel finale, mentre lui è malato e disperato perché ha rotto con Anna, ancora non impara, e con la nuova ‘fidanzata’ riprende l’atteggiamento appiccicoso ed oppressivo.

Attorno a Vincenzo poi, ruota tutto un habitat fatto di madri, sorelle, nipoti, cognati che quasi raccontano più di loro di Napoli che qualunque altra ripresa aerea.

Se proprio si vuole, la ‘città’ emerge nella casa di Vincenzo: il modo di disporre i piatti (quell da portare al ‘professore del piano di sopra’), i mobili della cucina, gli armadi con le specchiere, rimandano a una napoletanità profonda, difficile da spiegare, che ha a che fare più con un’antropologia della cultura materiale che con la facile rappresentazione d’una struttura abitativa cittadina.

Lo spettatore, dal canto suo, cerca freneticamente la presenza dell’attore, desidera la battuta, attende da un momento all’altro di scoppiare a ridere, vuole Troisi, il suo volto, il movimento delle sue mani e la voce. Per questo, in alcuni momenti ‘si perde’ e non si segue il film. E un po’ la maledizione che coinvolge coloro che hanno un corpo troppo presente (due esempi opposti? Woody Allen e Stallone). A questi cineasti è quasi interdetto fare altro cinema che non sia quello a cui sono legati. E Allen è dovuto tornare a far ridere prima di obbligare-educare il pubblico al suo cinema serio. È una specie di maledizione del corpo comico.

In tal senso riesce difficile seguire il Troisi regista. Solo rivedendo i suoi film ci si accorge di come impari a dire il suo anche solo attraverso un movimento di camera, attraverso un tipo d’inquadratura.

Nel suo secondo film, senza smanie artistiche ma con paziente umiltà, ha accettato di fare la gavetta. E, così, ha espresso del suo.

La capacità di scrittura – che, in questo film come per tutti gli altri, divide con Anna Pavignano – diventano evidenti soprattutto quando si scoprono i precisi segni d’una vlontà di rappresentare, in questo caso, il male, la malattia, la morte.

Fin dalle prime scene dominano tali eventi: si parte da un funerale. Poi c’è lo svenimento di Anna. Poi, il raffreddore di Vincenzo e la sua malattia (vera o presunta), C’è il mal d’amore di Tonino ed il suo tentato suicidio (che fa il paio con i discorsi di morte del professore). Nelle ultime scene, Vincenzo sta in pigiama e non sta un granché bene. Questi stati morbosi si avvertono solo sotterraneamente, presi come si è nella ricerca della comicità, delle battute di Troisi. Eppure qui, tutta la luminosità del primo film è sparita, dominano gli interni e i cieli oscuri.

Il finale chiude il cerchio, ritorna sugli stessi elementi delle prime scene. Nella stanza della madre di Vincenzo, seduti sul letto matrimoniale, ci sono i due protagonisti, personaggi non eroici, non eccezionali, semplici, e verrebbe da dire quotidiani. Entrambi cercano di definire un sentimento. Anna ha alcune aspettative, ha bisogno di certezze. Vincenzo, invece, è pronto a tutto: nel non sapersi decidere, nel non voler prendere una posizione netta, finisce col concedersi definitivamente al sentimento senza saperlo e, ormai, volerlo spiegare. L’ultima sua parola, raggelata nel fermo immagine, detta a chi forse vorrebbe andarsene, è “Resta!”, anche a costo di dover falsificare un sentimento, anche a costo di dirmi che m’ami senza volerlo veramente. È la rinuncia assoluta, l’impossibilità di essere certi, il trionfo dell’opera aperta.

 

dal libro Massimo Troisi. Il comico dei sentimenti a cura di Federico Chiacchiari e Demetrio Salvi (ed. Stefano Sorbini)

 

Regia: Massimo Troisi
Interpreti: Massimo Troisi, Giuliana De Sio, Lello Arena, Lina Polito, Franco Acampora
Durata: 112′
Origine: Italia 1982
Genere: commedia

 

 

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