Se fate i bravi. Intervista a Stefano Collizzolli

Il regista ci ha raccontato in esclusiva il suo nuovo film, che parte dalle vicende del G8 di Genova, per offrire un’esperienza sensoriale e soggettiva dell’evento. La nostra intervista esclusiva.

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È possibile comprendere, rielaborare o quanto meno raccontare i terribili fatti di Genova 2001? È proprio a partire da questi interrogativi che il cineasta Stefano Collizzolli evoca con Se fate i bravi la sua esperienza personale di quei confusi e traumatici giorni, lasciati per troppo tempo galleggiare senza una precisa direzione. Lo abbiamo incontrato in occasione della prima romana del film, poco prima dell’esordio nelle sale. Il documentario era già stato presentato in anteprima internazionale alle Giornate degli Autori di Venezia e il 7 novembre al Festival dei Popoli di Firenze.

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Partiamo proprio da qui. Dopo due tappe fondamentali come Venezia e i Popoli, il film arriva finalmente in sala. Come pensa che reagirà il pubblico? O meglio, quali emozioni vorrebbe attivare negli spettatori/cittadini che andranno a vedere il documentario, sia fra quelli che 21 anni fa si trovavano tra la folla di manifestanti, sia tra coloro che si avvicineranno per la prima volta alla materia?

Bella domanda, anche perché in buona parte non lo so ancora, aspetto di scoprirlo. Devo dire che a Venezia ero molto a disagio a presentarlo, ma questo capita ad ogni anteprima. Per quanto riguarda le reazioni, io continuo ad aderire a quello che pensavo 21 anni fa, e a credere che ci sia ancora la necessità di prendere la parola e di “non fare i bravi”. Bisogna parlare di quell’evento, perché molto è stato rimosso, anche da parte di chi credeva di averlo raccontato. Al punto che mi sono reso conto di non aver raccontato quell’esperienza neanche a mia moglie. La speranza, in questo senso, sarebbe quella di aprire uno spazio di racconto. Permettendo a chi guarda di tirar fuori delle cose anche inaspettate, come accaduto a me o ad Evandro.

 

Soffermiamoci su Evandro. Nel corso del documentario, lo vediamo ripercorrere la sua esperienza degli eventi, tra ricordi, sofferenze e ferite aperte. Però allo stesso tempo, la rievocazione di una storia passata gli consente di rielaborare quel trauma. Ecco, vedendo i tentativi di Evandro di riconciliarsi con le cicatrici del passato, ho avuto la sensazione che lei stesse rinegoziando la sua esperienza di quegli eventi attraverso il corpo di Evandro. Come se il protagonista fosse la proiezione fisica del suo sguardo. È così?

Assolutamente sì, tanto che la parte più autobiografica è venuta solo in un secondo momento. Inizialmente non avevo alcuna intenzione di mettere me stesso nel film, al punto che avevo anche dimenticato di aver girato delle immagini di Genova con la mia Mini dv. Perciò l’incontro con Evandro ha fatto emergere la necessità di costruire un dialogo all’interno di uno spazio vuoto. E la cosa particolare è che lui non racconta la sua storia a Daniele Gaglianone [co-regista del documentario] con cui si conosce da 30 anni, ma direttamente a me. Nonostante ci fossimo visti una sola volta.

 

Questa complicità è dovuta al fatto che 21 anni fa avevate condiviso la stessa esperienza? Nel film lei racconta che eravate a 10 metri di distanza, quando Evandro è stato catturato dalle forze dell’ordine.

Si esatto, e sono venuto a conoscenza di questo fatto proprio durante l’incontro. Mentre ascoltavo le parole di Evandro mi sono detto “Merda, ma in quel momento ero lì!”. E confrontando le immagini ne abbiamo avuto la prova.

 

Di Evandro mi hanno colpito due gesti in particolare: il primo è la sua propensione a spostare lo sguardo verso l’orizzonte, ogni volta che pensa a Genova; il secondo avviene subito dopo che il giudice Sabella esce dalla stanza, con Evandro che apre tutte le finestre, quasi come se volesse decontaminare l’aria della sua presenza. Cosa si nasconde dietro questi gesti? Sono nati spontaneamente, oppure sono frutto delle sue indicazioni?

Sono gesti molto diversi tra loro. Il primo è un’azione di auto-regia. Stiamo a Genova e improvvisamente Evandro propone di andare al mare, e tutto quello che succede lì nasce da una sua idea. Mentre nel secondo caso, siamo stati io e Daniele [Gaglianone] a suggerirgli quell’azione, in modo da mostrare una sorta di liberazione da una pressione psicologica fortissima.

 

Parlando invece di Genova, nel film ci sono diverse immagini della città. C’è una Genova idealizzata, che vive nelle menti dei giovani manifestanti; una Genova scioccante, inquadrata mentre scoppia la violenza; e una Genova traumatizzante, che si riflette negli occhi di Evandro. Ad oggi, qual è la prima immagine che le viene in mente quando pensa a Genova?

Allora, l’immagine di una Genova sognata è totalmente perduta. Forse la Genova che più mi resta è quella dei lampi disturbanti che irrompono improvvisamente nella narrazione. Ma più che immagini, mi sono rimasti impressi i suoni di Genova. Attorno alla voce di Evandro abbiamo infatti cercato di costruire un paesaggio sonoro che richiamasse alla mente proprio quelle sonorità, con alcune canzoncine, che per quanto infantili, restituissero bene il senso di quella dimensione perduta.

 

Il progetto nasce da un’idea di Fabio Geda, e solo in un secondo momento la Samarcanda Film lo propone a lei e a Gaglianone. Eppure il film, nonostante sia frutto di una collaborazione, sembra profondamente personale, al punto da restituire la sua visione soggettiva di quegli eventi. Qual è stata allora la scintilla scatenante? In che modo le vostre sensibilità hanno trovato un sentiero di espressione comune?

La scintilla viene proprio da Fabio, che aveva questa intenzione di raccontare Genova al di là della violenza. Ma non potevamo veramente abbandonare questa dimensione, che alla fine è diventata rilevante. Il lavoro perciò è stato questo: c’è una scintilla, e da lì si snoda un percorso che in realtà è un aggiornamento sulle cose che non ci diciamo. Un discorso che nasce con naturalezza, proprio perché la collaborazione tra me e Daniele [Gaglianone] si sviluppa ormai spontaneamente: a volte il montaggio prende la sua direzione – come è accaduto per Il tempo rimasto – altre volte la mia, come in questo caso.

 

Riguardo invece i suoi progetti futuri?

Ho in chiusura un film sulla rotta balcanica, realizzato con Andrea Segre e Matteo Calore. Mentre con ZaLab sto lavorando ad un film tristemente attuale, in cui parliamo di confini e di politiche dello stato. Il titolo è “Trieste bella di notte” ed è già in post-produzione. E adesso siamo in attesa di un festival.

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