Seguendo le tracce del reale: il documentario e gli Oscar 2023

I cinque documentari candidati alla statuetta d’oro diventano pretesto per ragionare sulle immagini in movimento all’insegna del reale.

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La forma del documentario, il genere che sembra essere il più apprezzato dell’epoca contemporanea, oscilla, paradossalmente, tra lodi e titubanze. Due tra i festival europei più autorevoli hanno ormai eliminato quella distanza tra documentario e fiction, premiando All the Beauty and the Bloodshed (Leone d’Oro 2022) e Sur l’adamant (Orso d’Oro 2023) come miglior film. Simbolo del mondo delle immagini che esce dalle categorie, ancora ordinatamente valide nell’universo hollywoodiano, un certo tipo di documentario sembra però essersi appiattito ad un modus operandi che lascia poco spazio alla sorpresa della visione.
In attesa degli Oscar di stanotte, la mondanità dell’evento diventa pretesto per una riflessione che se non porta risposte può almeno mettere a fuoco nuovi interrogativi rispetto al genere delimitato e non, che per convenzione denominiamo “documentario”. Riallacciandoci al “problema del reale” affrontato nell’ultimo numero della nostra rivista cartacea (A caccia del reale, n.13), consideriamo i cinque film, com’è d’uso, in competizione per la statuetta d’oro.
All that Breathes, diretto da Shaunak Sen, ha il merito di mettere la realtà al centro – quel qualcosa di inspiegabile che passa inosservato proprio perché sempre sotto gli occhi. Vincitore del Grand Jury Prize al Sundance Festival e de L’Oeil d’or a Cannes, il documentario HBO ha tanti meriti ma soprattutto quello di dare una sua definizione di “documentario”: un affaccio su una frazione di realtà che documenta il rapporto tra gli esseri viventi. Il respiro ritrova il suo centro in un mondo dove si considera solo l’affanno.
Sara Dosa ripercorre i passi della coppia di scienziati francesi, il loro amore all’insegna di lava e eruzioni vulcaniche. Fire of Love crea un gioco visivo tra immagini intime dei due e il loro riflesso nel mondo che seppur entusiasma l’occhio non scava più a fondo dello strato della litosfera.
Navalny, diretto da Daniel Roher, è un film di denuncia, che rientra però, necessariamente, nel contesto di guerra che tuttora separa i due emisferi terrestri. Non sarebbe giusto parlare di propaganda ma non si può nemmeno escludere il termine dalla riflessione che l’argomento richiede. D’altronde, il documentario anglosassone si preoccupa di mostrare lo stato delle cose aldilà del “filo spinato”, con immagini “reali” che raccontano le ingiustizie che hanno caratterizzato gli ultimi anni di attività politica dell’eroe russo. Il ritmo cadenzato del film, però, non lascia spazio alle sorprese del mondo surreale al quale assistiamo. La realtà che supera la finzione non esce dalla cornice, resta appiattita. La materia non emerge, il potenziale non raggiunge lo stato allucinato del soggetto di cui vediamo una vaga traccia solo nelle inquadrature finali. “Non dovete avere paura”, ci viene detto più volte dai protagonisti di questa storia, e questo è il messaggio più forte che riescono a passare le immagini – rinunciando così, però, ad un’efficacia del racconto che avrebbe sicuramente guadagnato nel giostrarsi con la mancanza di linearità che è realtà del mondo ripreso.
E sarebbe sbagliato non considerare un film di denuncia anche All the Beauty and the Bloodshed – il ritratto di Nan Goldin mira a toccare uno dei tasti più problematici del mondo statunitense, il problema feroce della sanità. Dagli scatti che denunciano violenze casalinghe, la fotografa passa a una lotta militante contro la famiglia di imprenditori che hanno le mani sporche di sangue: i Sackler. Laura Poitras, già vincitrice dell’Oscar al miglior documentario con Citizenfour (2018), cerca un linguaggio che possa far dialogare la staticità delle fotografie con il movimento degli inarrestabili, il gruppo che combatte senza arrendersi. Urgente quanto potente, la narrazione ricade però in dinamiche già viste. Le foto restano incorniciate nella staticità del loro medium; non riescono a invadere lo schermo come ne Il sale della terra (2014), dove la foto stessa, presa nei suoi dettagli e nelle sue grane, è riuscita a creare illusione di movimento molto più eloquente del movimento stesso.
Simon Lereng Wilmont firma la regia di The House of Splinters, un intimo grido di speranza che affronta tematiche che smuovono anche i più cinici, inquadra i bambini che abitano un orfanatrofio ucraino. Il reale che ferisce trova sollievo nei dolci volti di chi l’infanzia non ha avuto il tempo di viverla; e mentre la crudeltà del mondo strappa via i pochi stracci rimasti, il sorriso dei bambini dà la speranza per guardare al domani, in attesa di un cambiamento.
È questo ormai il soggetto ricercato per il documentario? La realtà che sembra superare i propri confini? Pensiamo alla surreale storia di Alexei Navalny, al pedinamento da thriller a cui assistiamo in All the Beauty and the Bloodshed. Una realtà fuori controllo è già cinema mentre si dispiega. L’urgenza delle tematiche non lascia spazio ad una riflessione sulle immagini? Questo sembrano problematizzare i documentari di oggi, a guardare la lista di candidati all’Oscar per il miglior documentario 2023; d’altronde, il mondo che abitiamo (ma è sempre così) è tanto sconvolgente da non lasciare altra scelta.
Sur l’adamant, l’Orso d’Oro appena conquistato da Nicolas Philibert, si distacca da questa ricerca senza frutti concreti dell’extra ordinario. Il battello sul quale viene accolto lo spettatore, dove risiede una casa d’accoglienza per i bisognosi, dialoga costantemente con la realtà circostante – ricordando che ciò che è considerato “anormale” sia in realtà molto più in norma del resto. Il passaggio, il ragionamento è inverso. È una disperata ricerca dell’ordinario, un ritorno a una dimensione più semplice dove la comunicazione è ancora uno scambio che si pratica vis à vis e comprende quell’antica pratica dell’ascolto, ormai quasi dimenticata.

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