Sembra mio figlio, di Costanza Quatriglio

Un cinema fatto di sguardi indagatori, spaventati, che non ha niente di accomodante, che ha voglia di suscitare sdegno e di accendere i riflettori su una delle tante tragedie ignorate del mondo

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La storia straziante di Ismail, scappato dall’Afghanistan da piccolo per sfuggire alla guerra ed alla morte a cui sono destinati quelli che come lui sono di etnia hazara, un popolo perseguitato ormai da oltre un secolo. Discendenti secondo alcuni dell’armata di Gengis Khan, costituivano per molto tempo l’etnia più numerosa di tutto il territorio, mentre adesso sono ridotti ad essere soltanto il 9%, per la decimazione subita per mano dei pasthun alla fine del diciannovesimo secolo, che ne eliminarono più della metà, e la conseguente migrazione per evitare la morte. Altre fonti li considerano legati invece ai Kushana, che costruirono i giganteschi Buddha di Bamiyan, distrutti dalla barbarie talebana nel 2011, con i talebani che in ordine di tempo sono gli ultimi carnefici di questo sfortunato popolo.

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Ismail con la sua patria di nascita conserva ormai soltanto il legame con la madre, tenuto vivo attraverso il telefono, ma dalle ultime chiamate capisce che c’è qualcosa che non va per il verso giusto. Del suo paese ha ereditato gli occhi, un segno di riconoscimento, ed altre inconfondibili caratteristiche fisiche, un carattere silenzioso e poco espansivo, in Europa ha un lavoro, delle amicizie, anche altro che potrebbe essere doloroso abbandonare (si sta innamorando), e tutto lascia propendere che sia impensabile fare marcia indietro verso il passato. Costanza Quatriglio fa in modo che la tensione, lo stato di crisi del protagonista emerga molto lentamente, servendosi della figura chiave di Assan, fratello di Ismail, un individuo guidato dai precetti della fede, rigidamente ortodosso ed inquieto, immergendo tutto in una atmosfera quasi di torpore, che lascia intendere qualcosa di silente in procinto di essere svegliato. Di lui si serve la regista per seminare l’agitazione ed arrivare al decisivo punto di svolta narrativo della storia: Ismail per ritrovare la madre dovrà andare lì, in quei luoghi da cui è dovuto scappare, e tra il Pakistan e l’Afghanistan cercare di rintracciare sua madre, ammesso non sia nel frattempo caduta nelle mani sbagliate, vittima della tragica sorte che aspetta le vedove di guerra hazare, una sorte che sin dall’antichità non è cambiata molto, e consiste nel trasformarle in merce di scambio.

Il cambio di ritmo avviene soprattutto a livello visivo, diventa testimonianza, tra scorci di montagna che sembrano emanare violenza, reietti abbandonati sulle strade, contrabbandieri di uomini, sangue, schiavitù, prigioni, la potenza del film aumenta ancora di intensità, quasi azzerando il ricorso al dialogo, già abbastanza rarefatto anche nella prima parte, per concentrare l’attenzione dello spettatore sulla forza implicita nelle immagini stesse. Un cinema che è fatto di sguardi, imploranti, indagatori, spaventati, che non ha niente di accomodante, che richiede pazienza ed attenzione, che ha voglia di suscitare sdegno e di accendere i riflettori su una delle tante tragedie ignorate del mondo.

 

Regia: Costanza Quatriglio

Interpreti: Basir Ahang, Tihana Lazovic, Dawood Yousefi

Distribuzione: Ascent Film

Durata: 103′

Origine: Belgio/Croazia/Iran/Italia 2018

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