Sentieri selvaggi, di John Ford
Western definitivo che profetizza il tramonto di un genere attraverso il contrasto tra natura e civiltà. Wayne è il loner che continua a vagabondare e non trova più punti di riferimento. Immortale.
Di cosa parla Sentieri selvaggi? Di tantissime cose in generale ma di una cosa in particolare. Dell’essere fuori tempo, travolti dalla Storia e dalle scelte individuali. La nascita di una Nazione come gli Stati Uniti si basa su divisioni, lotte intestine e anche violenze e stermini. The Searchers sono quegli uomini sempre in movimento che provano a guardare al di là dei confini del visibile per provare a rimettersi in sincronia con il proprio tempo. Da Ombre rosse e Sfida infernale, si è innestata una nota crescente di tristezza che troverà il suo completamento in L’uomo che uccise Liberty Valance: la malinconia nel western è la misura di questa distanza tra l’interno e l’esterno, tra la natura e la civiltà, tra il passato e il presente.
I primi pionieri che si sono spinti dentro la wilderness hanno dovuto fare i conti con le avversità naturali e le guerre di secessione. Qualcuno ha pagato con la vita, qualcuno porta ferite profonde, incurabili. Uno di questi malati di malinconia è Ethan Edwards (John Wayne) che si impegna in una lunghissima ricerca della nipote Debbie (Natalie Wood) rapita dagli indiani Comanche e dal loro truce capo Scar (Henry Brandon). Durante più di 5 anni di ricerche, molte persone si perdono per strada, alcuni muoiono, altri abbandonano: a fianco di Ethan rimane solo Martin (Jeffrey Hunter) che in realtà capisce subito le intenzioni malevole dello zio. Sentieri selvaggi è un lunghissimo viaggio attraverso luoghi ormai entrati direttamente nel Mito: la Monument Valley accoglie nei suoi colori accesi una umanità disperata e vagabonda, letteralmente homeless.
John Ford utilizza il formato VistaVision per fare risaltare gli spazi esterni e rendere più ricchi di dettagli gli interni. Impiega pochissimi primi piani e regala qualche carrellata in avanti nei momenti topici. Introduce anche una nota ironica nei rapporti sentimentali che trova il suo culmine nella scena della quadriglia (sembra quasi un omaggio a Sette spose per sette fratelli) e nella paradossale lettera d’amore letta da Laurie (Vera Miles). Sentieri selvaggi è il western da sezione aurea perché ripartito in blocchi perfetti di durata-movimento. Come già sottolineato da Gilles Deleuze, questi blocchi durano il tempo necessario a un occhio esperto per vedere tutto ciò che celano, e fanno di John Ford un “contemplativo rapido”, cioè un regista capace di attimi di contemplazione pura prima che si scateni l’azione. Si prenda ad esempio la scena del primo sanguinario attacco dei Comanche alla casa-fortino degli Edwards: l’abbaiare dei cani, le strane luci nel crepuscolo, gli sguardi di intesa tra Martha (Dorothy Jordan) e Aaron fino ad arrivare all’improvviso urlo di Lucy.
John Ford inquadra perfettamente la relazione tra pensiero e azione. L’attore che incarna perfettamente lo stile registico di Ford in questi termini di tempo-movimento è proprio John Wayne, qui alla migliore interpretazione della sua carriera. Ethan è l’anti Ulisse, che al ritorno di un limbo di tre anni, non trova nessuna Penelope e nessuna Itaca, ma solo Proci. I suoi occhi guardano Martha come un’occasione perduta. Ethan si trova improvvisamente messo fuori gioco dalla storia e lotta ancora disperatamente per non diventare fantasma. Il terribile odio verso i Comanche diventa l’unica sua ragione di vita: persi l’amore, gli affetti e anche una possibile idea di famiglia allargata, rimane l’annientamento del nemico, così simile a noi stessi. Il lungo fiume di Sentieri selvaggi attraverso clamorose ellissi di tempo (sottolineate da lettere che impiegano anni ad arrivare al destinatario) è un viaggio al termine della propria cattiva coscienza. Le violenze sono da entrambi gli schieramenti, sia da parte dei bianchi, sia da parte dei nativi americani. L’avidità è una caratteristica che accomuna sia il locandiere Futterman (Peter Mamakos) che il faccendiere messicano Emilio Figueroa (Antonio Moreno) ed è direttamente proporzionale alla vigliaccheria. Anche i principi religiosi incarnati dal reverendo-ufficiale sembrano crollare di fronte al principio di realtà di Ethan Edwards. Gli unici personaggi positivi sembrano essere il folle shakespeariano Mose (Hank Jordan) così legato al concetto di casa (e alla sedia a dondolo) e il giovane Martin che richiama Ethan ad un senso di responsabilità paterno. E’ proprio nel confronto con Martin che avviene la catarsi di Ethan: la pietà riesce ancora a vincere sul rancore.
Sceneggiato da Frank S. Nugent sul romanzo The Searchers di Alan Le May (basato su eventi realmente accaduti), film feticcio per Martin Scorsese, Steven Spielberg, John Milius e Paul Schrader, Sentieri selvaggi è il canto malinconico di un loner che vive ancora in un passato mitologico e non trova più il proprio posto nel mondo. Ed il passato ritorna ancora per un momento al centro dell’immagine per poi scomparire dietro una porta che si chiude. La grandezza di Sentieri selvaggi sta in questa malinconica forma di resistenza di un uomo che si afferra per un braccio (omaggiando Harry Carey) quasi per non volere lasciare il centro dell’inquadratura. Per un attimo è tornato in sincrono con la Storia, adesso lo aspetta il crepuscolo del fuoricampo.
Titolo originale: The Searchers
Regia: John Ford
Interpreti: John Wayne, Jeffrey Hunter, Vera Miles, Natalie Wood, Ward Bond, John Qualen, Henry Brandon, Dorothy Jordan
Durata: 119′
Origine: USA, 1956
Genere: western
La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
Il voto al film è a cura di Simone Emiliani