Sentieri Selvaggi incontra Luca Guadagnino

Premiato per We are who we are, miglior serie tv 2020-2021 per Sentieri Selvaggi, il regista si è raccontato tra riferimenti cinematografici, musica e remake. Ecco com’è andata

In occasione della premiazione di We are who we are come miglior serie della stagione 2020-2021, venerdì 25 febbraio Luca Guadagnino è stato nostro ospite durante un incontro in presenza con gli studenti, trasmesso anche in diretta Facebook. La chiacchierata, durata quasi un’ora e mezza, è partita dal nucleo centrale della serie Sky, ovvero l’abilità del regista di raccontare il desiderio e la giovinezza, sul modello di grandi “autori della giovinezza” come Bernardo Bertolucci, Max Ophüls o Éric Rohmer. A tal proposito Guadagnino ha rivelato che per riuscirci si è lasciato guidare e ispirare dagli attori con cui ha lavorato. “Sono molto economo sul set, cerco di girare il meno possibile, uno o due ciak, perché secondo me quando gli attori sono investiti dei loro personaggi e si sentono a loro agio, danno qualcosa di molto potente quando lo stanno facendo la prima volta“. Un altro elemento fondamentale per ricreare il clima emotivo delle scene è senza dubbio l’uso della luce, che Guadagnino ha definito il film stesso: “Sono fortunato perché ho lavorato con dei direttori della fotografia meravigliosi che hanno saputo portare dentro al film la loro luce. La regia è mia ma la luce è loro, nella misura in cui conoscendoci piano piano, capiscono come deve essere. Non mi interessano gli artifici di post produzione” ha detto.

La conversazione è virata poi sul lavoro fatto sulla musica di We are who we are, altro elemento costitutivo del suo successo.La musica non è sul set, non è lì per cercare di alleviare niente. Non è neanche questione di playlist, ma di frammenti, riflessioni, può essere musica che sgorga dall’identità dei personaggi, dalla loro voglia di comunicazione l’uno con l’altro. A volte è musica diegetica, altre è l’estensione della regia“. Come raccontato dal regista, la playlist si è sviluppata dall’unione di due diverse fonti d’ispirazione: da una parte ha contribuito l’idea di Lorenzo Mieli di raccontare un tema caldo come la fluidità di genere, unita poi all’interesse di Guadagnino per il modo di rappresentare la suburbia americana “perché è letteralmente come la vediamo nei film. E’ una sorta di strano specchiarsi tra la realtà e l’immaginario di cui sappiamo che gli Stati Uniti fanno un utilizzo totalitaristico“. L’altro elemento d’ispirazione è stato il musical I Was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky di John Adams, compositore celebratissimo in America. E sempre riferendosi al suo rapporto con la musica nei suoi film, Guadagnino non poteva non nominare le collaborazioni con Thom Yorke per la colonna sonora di Suspiria e quella più recente con Trent Reznor e Atticus Ross per un progetto in fase di lavorazione.

Guadagnino è poi passato a parlare del suo rapporto con la critica cinematografica e in particolare gli scritti di Roberto Silvestri, su cui il cineasta palermitano si è formato e grazie ai quali ha scoperto il cinema di Jonatham Demme, che è diventato argomento centrale della sua tesi di laurea. “Mi manca molto questo modo di scrivere in cui il punto non era la trama ma la critica era già in sé un pezzo di cinema da solo. Il modo in cui parlava di Demme in maniera oscura, in cui spiegava qual era la rivoluzione di Demme, mi colpì profondamente. Il nome di Demme mi è rimasto dentro”.  E rispetto alle stroncature dei suoi film ha detto: “Alle volte le critiche mi hanno fatto capire qualcosa del mio lavoro che non avevo capito. Mi interessa questo: leggere qualcosa che mi faccia capire qualcosa di me che io non vedo. Non c’entra con il concetto di costruttivo. A me piacciono le stroncature, però devono essere fatte bene. Non ci può essere l’arroganza di non voler guardare un film per il testo che è. Mi è sembrata interessata la stroncatura di un critico americano considerato di destra, Aaron White, che aveva scritto su Suspiria dicendo che è il corrispettivo cinematografico delle magliette di Che Guevara. Sul marketing della nostalgia della sinistra in questo periodo ultra liberista, abbiamo fatto tutti molte riflessioni ed essere tacciato di quella cosa lì è stato molto interessante”.

riprese di Aurora De Lisi, David Marignani, Emanuele Rossetti, Lorenzo Levach
montaggio di Emanuele Rossetti e Lorenzo Levach

Durante l’intervista si sono affrontati anche i suoi lavori più recenti, come il documentario su Salvatore Ferragamo: “Di certo Ferragamo è personale nella misura in cui in lui riconosco una sorta di emarginato, una persona che è sempre al di fuori delle cose. Ha sempre avuto un grande senso della famiglia ma contemporaneamente è sempre stato fuori. Era un eccentrico e un uomo al di fuori dei sistemi”. Ma ha rivelato anche di essere intenzionato a riprendere in mano la versione extended di A bigger splash, presentata come omaggio al Göteborg Film Festival, con l’obiettivo di farlo uscire sulle piattaforme streaming e in formato blue ray. Guadagnino ha poi parlato del suo lavoro come produttore, a partire dal film Netflix Beckett, che ha definito “uno strano esperimento”. Un progetto nato non con la vocazione di fare un film internazionale, ma sviluppatosi in maniera organica attorno al protagonista John David Washington. “Spero di avere uno spettro dell’immaginazione più ampio rispetto a quello che mi piace fare come regista” e ha poi aggiunto “Ho prodotto molte cose, di diversi formati, cortometraggi, lungometraggi, documentari. Sto producendo il secondo film di Gipo Fasano, dopo Le Eumenidi. Penso che il mio lavoro di produttore sia perfettamente integrato nella mia identità di cineasta“.

Si è parlato poi di fascinazione per il passato e retromania vintage, un concetto che ha detto di detestare. E a proposito di remake ha dichiarato “Il remake è un concetto base del cinema. Tutto è un remake delle stesse due, tre fonti narrative. Su Suspiria mi interessava vedere cos’era rimasto fuori dal film di Dario. È ambientato nel ’77 e non è un anno che si può mettere così. Questa scelta mi aveva incuriosito”. E rispetto al riproblematizzare un passato apparentemente neutro e pacificato ha aggiunto “Sarebbe interessante capire come viviamo rispetto al tempo in cui siamo. Anche Call me by your name sembra venire dagli anni ’80, è una cosa che mi fa piacere perché volevamo fare un film ambientato esattamente nel tempo in cui accadeva, ma che profeticamente avesse visto delle cose del dopo. Quello che mi interessa è trovare nella memoria del cinema che mi piace una dimensione della realtà che esiste veramente”.

Le foto di questo articolo e della galleria sono di Souheila Soula

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