SENTIERI SELVAGGI STORY – 1941 – Allarme a Hollywood, di Steven Spielberg
Steven Spielberg + Robert Zemeckis + John Belushi (e John Milius), per un capolavoro del cinema demenziale: dal libro “John Belushi, l’anima blues in un corpo punk” Edizioni Sentieri selvaggi
Il corpo di John Belushi percorre trasversalmente il capolavoro di Steven Spielberg, questa macchina dagli ingranaggi perfetti, comicità delirante trattenuta in immagini che documentano a ogni inquadratura il controllo del set, che è 1941: allarme a Hollywood. E’ un film senza comportamenti divistici, senza protagonismi, nel quale le – comunque forti – presenze attorali (da Belushi a Dan Aykroyd, da Treat Williams a Warren Oates, da Toshiro Mifune a Christopher Lee, da Robert Stack a Sam Fuller) esistono nella discrezione (potrebbe sembrare paradossale nella gran sarabanda dei gag ripetuti e ossessivi, ma è proprio la discrezione uno dei tratti fondativi di 1941), in una presenza sullo schermo non continuativa, che si frastaglia nel tempo del racconto e della visione, in un gioco collettivo dell’apparire-sparire dalle sequenze (che è il procedere, per montaggio parallelo, delle vicende che vedono a turno in campo i numerosi personaggi). Niente divismi o parti più importanti di altre. Così, in questa struttura a incastro che si segmenta in tanti spazi e numerose storie per una non-immedesimazione emozionale, John Belushi è “uno dei tanti”, un personaggio, come gli altri, ossessionato da una missione da compiere (militare o sessuale), alterato in un (suo) mondo: fa a pugni, si incontra, si scontra, gioca con altri mondi di altri personaggi in altri stati di alterazione, sempre e ovunque controllati dalle immagini e deposti nelle inquadrature di precisione geometrica e pre-viste che danno forma a 1941.
SULL’AEREO-SQUALO
Lo si incontra, Belushi, quando il film è già avviato nel percorso di una storia impossibile da racchiudere in una linearità d’eventi e di un continuo, espresso, dichiarato riferimento metalinguistico che estremizza un percorso spesso intimo della visione, quello per cui le immagini non esistono mai isolate, ma in rapporto, più o meno sotterraneo, ad altre. Spielberg ne fa uno dei tratti forti di 1941, porta la citazione da gioco a segno in un’opera che ricorda a ogni fotogramma che si è nel territorio del cinema, nella finzione più esibita, al punto da diventare documentario sull’esistenza e sulla progressiva distruzione (fino alla fine, fino alla fine delle riprese) di un set. Il film è, in questo modo e ancor più, già avviato prima del suo inizio (che, non a caso, è sprovvisto di titoli di testa – si leggono solo la scritta della produzione e la dicitura “1941” che, più che titolo, assume la funzione di pre-didascalia, anticipando quella inserita per spiegare gli avvenimenti), è già in rapporto stretto con altri set, ben testimoniato dalla sequenza d’apertura con la ragazza in acqua che fa lucido richiamo a quella identica su cui si apre Lo squalo. Rimandi a precedenti testi di Spielberg e a sovrimpressioni mentali con tanto cinema di “genere” assimilato dalla storia del cinema. Non è un caso, ancora, che Belushi appaia su un velivolo sul quale è disegnato il muso di uno squalo che digrigna i denti e che su quel mezzo abbastanza scassato l’attore continui la sua azione, costringendo il suo corpo (e il suo personaggio) in quello stretto abitacolo per quasi tutto il tempo. Anche Belushi è così già avviato, lo si incontra già in viaggio, sospeso (ancor più perché quasi sempre in aria) nel film che sta interpretando e nel cinema tout-court (naturalmente, a partire da quello spielberghiano, da quell’aereo-squalo).
“PSICOSI? CHI HA DETTO PSICOSI?”
Sono quattro i segmenti (tre più l’ultimo, parecchio più articolato) in cui compare John Belushi, schegge all’interno di un film che procede scheggiato/composto. Segmenti dove il corpo dell’attore e le battute pronunciate rimandano a un insieme, all’esistenza complessa del set e dei suoi strati visivi. E’ sulla ‘Valle della Morte’ attraversata in picchiata, che si presenta Belushi in 1941: allarme a Hollywood: Sigaro in bocca, sguardo fin da subito (fin da prima, perché il suo è un volo infinito iniziato chissà quando e chissà dove) perso nella sua ossessione, quella di dare la caccia ai giapponesi, di inseguirli vedendo da tutte le parti soltanto quei nemici. Stato alterato. Ma guai a dirglielo. “Psicosi? Chi ha detto psicosi?”, urla Belushi nella stazione di benzina dove atterra per fare rifornimento ascoltando i commenti sulla nevrosi collettiva anti-giapponese. “L’hanno detto alla radio”, si azzarda a riferire un avventore. “Mente, la radio”, tuona ancora Belushi, sparando sulla trasmittente, un attimo prima di rincorrere il suo aereo-squalo da combattimento, trasformato in quest’occasione in corpo quasi autonomo (anche nella concezione di cinema-striscia fumetto che è 1941) che si allontana dalla stazione.
Prologo a ulteriori vertigini d’immagini e parole. A un’ancor più spericolata traversata aerea a fior di boschi e canyon compiuta da un Belushi capitano dell’Aeronautica dell’Esercito Americano a bordo del suo velivolo da portare (o dal quale farsi portare) oltre le rotte di sicurezza, oltre le linee pre-ordinate di viaggio e di missione, spostandosi trasversalmente nei cieli (e in seguito, a terra e sott’acqua), e così negli spazi del film. “Perduto!”, sbotta l’attore che, in questa sua seconda apparizione (collocata poco distante dalla prima) – e la prima tutta nei cieli dell’artificio filmico elaborato fin nei dettagli dal maestro Spielberg – trasforma il suo minuscolo posto di guida in spazio dal quale fare apparire e sparire oggetti, per un gag visivo lasciato alla faccia, alle braccia di un corpo lì imprigionato (e al montaggio che dettaglia, separa, scopre frammenti d’aereo e di corpo). Spazio-cartoon esemplare che accoglie sorprese visive. Belushi cerca inutilmente di raccapezzarsi consultando una cartina bianca che gli copre la visuale. Quella carta diventa anche schermo bianco che lui sfonda col volto ri-apparendo da dietro essa. Belushi estrae una piccola bambola, situata fra le sue gambe (e nel gioco di allusioni sessuali che popola 1941 questa è la rappresentazione più hard e im-mediata), gioca con quell’oggetto prima di nasconderlo nell’interno della giacca (“Dopo la guerra, bambola”). Belushi fa comparire una bottiglietta di Coca Cola, bevuta a gran sorsi, spaccata, gettata nel vuoto.
Belushi si salva da uno scontro con una montagna, continua il suo vorticare nei cieli annullando distanze, si ritrova sempre a contatto con la riflessione metafilmica attuata da Spielberg. Fino a diventare il personaggio che ricorda, anche con una battuta, il procedimento ludico/teorico adottato.
“SONO COMPARSE, SCEMO,
QUESTO E’ UN FILM DI GUERRA”
La terza apparizione dell’attore è a terra, in una notte bluastra che rende quasi invisibile il campo militare e i suoi abitanti, soldati che potrebbero appartenere a qualsiasi guerra, in attesa di avvenimenti fuori dal tempo. Dialogo esasperato, urla e parole precedono la nuova tappa nella missione del capitano Belushi, in cerca del sottomarino giapponese, e l’ultimo capitolo, lungo e frastagliato in cui il cielo, la terra, l’acqua confluiscono nelle immagini notturne a formare un unico set mentale e luccicante. “Questa è guerra”, dice Belushi sulla Hollywood Boulevard. Guerra privata, personale, senza tempo. Come in tutto il film. Guerra per conquiste militari e/o sessuali, che i personaggi interessati fanno procedere in luoghi diversi. Guerra che fa prendere abbagli, fa vedere cose diverse da quelle reali. Così, il capitano Belushi affonda un aereo statunitense, lo insegue nella notte. Il suo aereo-squalo viene colpito da proiettili proprio sulla facciata, quella che porta disegnato il muso del pericoloso pesce. Trafitto. E l’aereo si schianta contro il viale hollywoodiano, portando a terra – dopo la sfida su Hollywood che si espande in uno spazio sempre più irreale e senza set, in-esistente – il corpo svenuto del pilota. Gioco del depistamento. Perché è in questa situazione che il personaggio di Belushi lascia posto all’attore Belushi che interpreta un personaggio, che per un frammento si stacca dal ruolo (e dalla voce richiesta) per diventare, steso a terra sotto una statua di Babbo Natale senza testa, colui che teorizza tutta l’operazione spielberghiana. Alla domanda se si tratti di militari giapponesi risponde “No, sono comparse, scemo, questo è un film di guerra”. Battuta straordinaria. Per il film e al di là di esso. Prima che Belushi rientri nel personaggio e continui la sua folle corsa. Non più in aereo. Ma su un sidecar. Spingendo il suo corpo oltre i limiti delle inquadrature. Belushi attraversa i tre spazi di 1941: allarme a Hollywood. Dal cielo approda sulla terra. Dalla terra affonda nel mare. Cerca disperatamente di abbracciare una parte del sottomarino nemico che già sta affondando. E si inabissa con esso, si introduce al suo interno, dove lo aspettano – per la prima volta – i nemici che ha tanto cercato e che lo porteranno altrove. Oltre il corpo-film. Infatti, Belushi non fa parte del raduno finale con i personaggi ritrovati, dopo il disastro, nel giardino di casa Douglas (tra l’altro, in una magnifica sequenza di aldilà, che anticipa L’impero del sole e, oltre Spielberg, i raduni finali di almeno due film: Velluto blu di David Lynch e Nessuno di Francesco Calogero). Belushi è scomparso per davvero prima. Rapito dai giapponesi. Inabissatosi in quell’immagine notturna. Ultimo depistamento del suo personaggio. Trasversale al testo. Rapito dal fuoricampo. E non restituito al film. Ancora avviato sempre e ovunque nella sua infinita ossessione. “L’imperatore è in casa?”.
Titolo originale: 1941
Regia: Steven Spielberg
Interpreti: Dan Aykroyd, Ned Beatty, John Belushi, Lorraine Gary, Murray Hamilton, Christopher Lee, Tim Matheson, Toshiro Mifune, Warren Oates, Robert Stack, Treat Williams, Nancy Allen, Lionel Stander, Samuel Fuller, John Landis, Mickey Rourke, James Caan
Durata: 118′; director’s cut (146′)
Origine: Usa, 1979
Genere: azione, commedia, guerra