SENTIERI SELVAGGI STORY – Kevin Costner e l'ultimo mèlo: "Le parole che non ti ho detto"

Rivisto in televisione, questo film del 1998 è uno dei più grandi e sottovalutati mèlo degli ultimi anni. "Message in a Bottle" è un film sulla comunicazione assoluta, truffautiano nella sua ossessione di comunicare con i vivi attraverso i morti (e viceversa…).
Ripubblichiamo la nostra recensione dal sito di allora, n. 5.0 on line, maggio 2000

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Ecco un film che non piacerà ai fanatici dell'ondata neo-cinica angloamericana. Perché questo film di Kevin Costner è tutto tranne che cinico, semmai è un film 'vulnerabile', come lo siamo tutti.

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Cinema della comunicazione, quello di Costner, da sempre. Di storie che spingono oltre ogni limite la ricerca del comunicare, propria di personaggi che vivono nella solitudine estrema, come il  John J. Dunbar di Balla coi lupi, o il Mariner di Waterworld, per non parlare del Postino de L'uomo del giorno dopo.  Solitari per definizione, i personaggi costneriani, sono però messaggeri di comunicazione, sguardo aperto verso l'altro, pur nella chiusura apparente della figura del 'cavaliere solitario'. Message in a Bottle, in questo senso, prosegue l'ossessione comunicazionale di Costner, spingendo ancor più le suggestioni truffautiane già presenti in The Postman (l'amore per la scrittura, per le lettere e i libri di Fahrenheit 451), verso un delirante mélo dove le passioni (vedi Le due inglesi, ma tutto Truffaut, in definitiva), l'amore estremo, oltre la morte (La camera verde) diventano il cuore pulsante della pellicola, veri personaggi tra i personaggi del film.

Film sulla comunicazione, appunto. Nell'era della comunicazione planetaria, dove abbiamo a disposizione tutti gli strumenti possibili, Costner/Garrett rilancia il più antico dei messaggi, quello nella bottiglia lanciata nel mare. Perché come puoi mandare un'e-mail a qualcuno che non c'è più…? Ma in questo delirio romantico del lancio della bottiglia (che ritorna sia nel film, con il varo della barca, ma anche nella filmografia di Costner, ricordate il DOM Perignon di Fandango?) Garrett riesce straordinariamente, attraverso la comunicazione con i morti, a comunicare con i vivi. In clamorosa sintonia con gli ultimi film di Clint Eastwood (in particolare Mezzanotte nel giardino del bene e del male , ma i due s'intendono alla grande evidentemente dai tempi del bellissimo Un mondo perfetto, altro film intriso di morte/vita dal primo all'ultimo fotogramma) Kevin Costner riflette sulla centralità della morte (come rimozione, come destinazione, come liberazione, come attrazione/repulsione, ecc…) nella nostra cultura occidentale di fine millennio, centralità che altre culture hanno fatto proprie da secoli ma che nel 'primo' mondo solo in pochi riescono a leggere. Parlare con i morti, vivere con i morti, spingere quasi alla follia la propria vita in direzione della morte (altro film fondamentale in tal senso è City of Angels, dove al contrario un non vivo, un angelo, proprio nel desiderare la finitezza del vivere di fronte alla morte, farà il percorso inverso, diventerà uomo per desiderio di vita e riscoprirà in un circuito (in)finito la morte della sua compagna): questo è Garrett, isolato nella sua casa sul mare, casa reliquia, casa museo, dove nulla può essere spostato (come nel film A prima vista  di Irwin Winkler, dove il protagonista è cieco – peraltro occasione mancata di una possibile riflessione sullo stato attuale di "non vedente" che domina l'intera umanità).  Solitudine estrema, quasi ricercata, per non intaccare il rapporto diretto con la moglie Katherine che non c'è più, e alla quale solo in bottiglia, nel mare sperduto, ha potuto finalmente dire 'le parole che non ti ho detto'. Ma siamo alla vigilia del XXI secolo, e nulla va più perduto per sempre. Perciò la sua bottiglia finisce proprio sulla spiaggia dove, anch'ella in perfetta solitudine, fa le sue belle vacanze di ritrovata 'single' Teresa. Che non si limita a leggere la lettera, ma si mette alla caccia forsennata del mittente. E con i mezzi di comunicazione di oggi (è una ricercatrice di un giornale, dopotutto) ci mette poco a scoprire chi le ha scritte, e ad imbarcarsi nell'avventura del conoscerlo. 

Message in a Bottle è un mélo perfetto, nei suoi silenzi, nell'imbarazzo dei due protagonisti, nella nascita silenziosa dei sentimenti. E il bisogno/desiderio dell'altro è quasi palpabile, tanto "non corporeo" (il film è quasi 'asessuato' nel suo sentimentalismo assoluto) da risultare paradossalmente 'fisico'. Poi i meccanismi narrativi sembrano 'scontati': lui che va da lei, la scoperta che l'incontro non è stato casuale, e la fuga di Garrett, interrotta però nel magnifico 'climax' della scoperta della terza lettera, da lui mai scritta  e perciò di Katherine (vero delirio di commozione assoluta: i morti ci rispondono! Neanche il migliore degli horror è mai giunto a tali estremismi). Garrett finisce la barca disegnata da Katherine, si riappacifica silenziosamente con la famiglia di lei, e quanto più si riavvicina alla moglie morta tanto più sente la mancanza di Teresa.


É scontato che un simile personaggio, che sembra un fantasma dall'inizio del film, che vive con i morti e comunica realmente solo con loro, alla fine debba 'necessariamente' morire.  Ma è scontato non tanto in una banale rilettura del cinema hollywoodiano, ma quanto in una riflessione sulla natura 'necrologica' della storia, e sappiamo bene come Amore e Morte da sempre, nella cultura americana, rappresentano solo apparentemente degli opposti.

 

Titolo originale: Message in a Bottle


Regia: Luis Mandoki.


Sceneggiatura: Gerald DiPego dal romanzo di Nicholas Sparks.


Fotografia: Caleb Deschanel.


Montaggio: Steven Weisberg.


Musiche: Gabriel Yared.


Scenografia: Jeffrey Beecroft.


Costumi: Bernie Pollack.


Interpreti: Kevin Costner (Garret), Robin Wright Penn (Theresa), Paul Newman (Dodge), John Savage (Johnny Lend), Illeana Douglas (Lina), Robbie Coltrane (Charlie).


Produzione: Denise Di Novi, Jim Wilson, Kevin Costner per Tig Production.


Distribuzione: Warner Bros.


Durata: 131'.


Origine: Usa, 1998.


 

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