Sentieri Selvaggi(a) – Harvey Weinstein e la moviola in campo
Bisogna ammetterlo, aveva ragione Aldo Biscardi che l’ha sempre gridata, la moviola in campo, per la ricerca dei falli… La vita è bella e se Benigni parlasse, racconterebbe di un altro Mostro
Bisogna ammetterlo, aveva ragione Aldo Biscardi che l’ha sempre gridata, la moviola in campo, per la ricerca dei falli, quelli che sfuggono all’occhio nudo, all’occhio umano. Solo la moviola in campo, o nel fuoricampo, potrebbe salvarci da questo mondo di stelle che, diciamolo sinceramente, è sempre più distante dai racconti cinematografici e teatrali classici e si fa sempre più videoclip, pubblicità, danza nervosa e sincopata, tra l’eccitazione estatica della ninfa danzante rinascimentale e una menade melanconica. Ma la tecnologia, caro Aldo, dovrebbe risolvere errori minimi, non visibili ad occhio nudo, non quelli grossolani, perché altrimenti l’uomo si farebbe triste protuberanza della macchina, malinconica appendice del corpo, dagli occhi superflui, da tenere per sempre chiusi, come un Avatar mai compiuto. Cosa resterebbe nei ricordi e nella memoria? La VAR cattura un felice disturbo della personalità, un istante prezioso per riflettere sul presente. È proprio come un déjà-vu o una sorta di “refrain biscardiano”, come una ripetizione del tempo, con un arrestarsi e rallentarsi del suo scorrere inesorabile verso la fine, sul presente ravvivato da un’eco surreale.
Solo la moviola in campo potrebbe cogliere l’attimo del déjà-vu, l’allucinazione inversa, della realtà che si fa sogno, come, appunto, un felice disturbo della personalità. Magari una tormentata dissociazione, come quella che sta vivendo Harvey Weinstein. Ma chi vuole la moviola in campo? Il calciatore/attore o lo spettatore/guardone? Weinstein continua a gonfiarsi sempre più, l’ultimo bottone… della giacca rischia di saltare da un momento all’altro e finalmente scopriremo il suo vero costume: pantaloncini ascellari e petto in fuori, come il Superman della Miramax, travestito sotto mentite spoglie per fingersi un mogul qualsiasi. Altra vittima predestinata dell’iper-visione moderna nel proliferare di telecamere, angolazioni di ogni tipo, slow-motion, grafici, elaborazioni al computer che vivisezionano ogni episodio fino a staccarlo dal continuum che una partita rappresenta. Fino a farci percepire un altro mondo di stelle (alcune già spente da tempo…), un ibrido gesto che diviene idolo, feticcio del consumo mediatico. Così la moviola in campo, e magari il replay sul megaschermo a condizionare le decisioni arbitrali, è forse un vero (o irreale) pretesto, potrebbe diventare un mondo visivo a parte, un fuoricampo scalpitante nel voler entrare in gioco, fatto di suggestioni, reali perché oggetto di visione, irreali perché del tutto scollegate dal flusso temporale e causale che lega gli eventi tra di loro in una tempesta di emozioni prefabbricate.
Le palle non girano, sembra non scorrere, semplicemente rimbalzano da uno schermo all’altro, dal fallo, al pixel. Lo scandalo ha travolto anche l’Asia “minore” e la geografia del peccato si espande e si finanzia democraticamente. La vita è bella e se Benigni parlasse, racconterebbe di un altro Mostro, di un altro Inferno dantesco, magari ci farebbe precipitare tutti ne Il Cratere di Luca Bellino e Silvia Luzi, che termina proprio con una sorta di “var”. La macchi(n)a si allarga giorno dopo giorno, anche se i contorni sono sempre più precari, fuori fuoco, non definiti. E chissà l’uomo con la macchina da scrivere, Jerry Lewis, cosa avrebbe messo in piedi: avrebbe scritto e girato Se la dai sono guai! e a tempo di musica avrebbe pigiato i tasti e azionato la leva “a capo” di una macchina da scrivere che esiste solo nella sua e nella nostra immaginazione. Un tesoro testuale. Se, per qualche dimostrazione critica, si avesse bisogno di un’allegoria in cui scoppi la meccanica folle del testo carnevalesco, questa scena è l’emblema magistrale delle sovversioni (e perversioni) logiche operate dal testo che libera la dimostrazione dal suo attributo dimostrativo. Ciò che libera la metafora, il simbolo, l’emblema della mania poetica, ciò che ne manifesta la potenza di sovversione è lo strampalato, questa “storditezza” che Jerry ha saputo mettere nei suoi esempi, a dispetto d’ogni retorica “selvaggia”. L’avvenire logico della metafora è sempre più la gag.
Provate a essere una ragazza di ventun anni, minuta, davanti a un bestione in accappatoio che ha più potere su di te di chiunque altro, pure del papa e di Clinton. Weinstein è l’uomo più potente di tutto il sistema hollywoodiano. Possiede la Miramax. Controlla i tabloid. Ha dalla sua soldi, politici, un esercito di persone influenti che lo difendono. Tu non sei niente, non sei nessuno, cedi per la carriera ad un predatore seriale dalle mille personalità: “Quand’è che stacchi? – le domandò. Intorno alle due e mezza – rispose. Che ne dici di fare colazione insieme? Ci vediamo allora. Benissimo. Uscì. Il pensiero di lei lo eccitava. Che ora era? Dovevano essere le ventidue e trenta, ma non aveva l’orologio. Risalito in automobile, apprese dalle notizie di News 98 che erano le ventuno e dodici. Più di quattro ore di attesa. Avrebbe mangiato un boccone e poi sarebbe andato al cinema. Aveva notato Pulp Fiction in un padiglione del centro. Era l’unico film che desiderava veramente vedere… il poliziotto gli fece cenno di proseguire. Al suo passaggio lampeggiò la lampadina di un flash. Sull’asfalto, accanto al marciapiede, era riverso un cadavere. Una scarica di piombo da un’auto in corsa? Fosse quel che fosse, non avrebbe visto Delia quella sera. – Addio, pupa, – disse, riflettendo sulla via più veloce per raggiungere un’autostrada. Una qualsiasi l’avrebbe portato all’interstatale 5 (Cane mangia cane, di Edward Bunker)”.