Sentieriselvaggi21st #11 – Segnali di vita di Franco Zuffanti

Pasquetta con Franco Battiato! Un estratto dal #11 di Sentieriselvaggi21st e dal testo di Franco Zuffanti, che ripercorre le origini dell’album più famoso dell’artista siciliano

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OPEN DAY FILMMAKING & POSTPRODUZIONE: 23 maggio

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Franco Battiato


BORSE DI STUDIO per LAUREATI DAMS e Università similari

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SPECIALIZZAZIONI: la Biennale Professionale della Scuola Sentieri selvaggi

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1980, il programma è Domenica in, il conduttore Pippo Baudo e l’ospite Franco Battiato. Quest’ultimo ha accettato (di malavoglia) un giro promozionale in tv e radio per promuovere il suo L’era del cinghiale bianco, pubblicato pochi mesi prima. Il disco ha bisogno di essere presentato in giro per portare all’attenzione dei più il nome di Franco. Non che questo sia sconosciuto, anzi, non sono pochi quelli che ricordano il capellone riccioluto che all’inizio degli anni Settanta provoca un vero e proprio shock con i suoi album Fetus e Pollution. Dischi che riscuotono un certo successo e impongono alle giovani platee questo personaggio a dir poco bizzarro che propone una musica quantomeno strana, condita di sintetizzatori dai suoni inauditi e testi che spaziano dalla biologia alla fisica passando per la fantascienza.

Negli anni tra il 1972 e il 1973, Battiato furoreggia, e, complici diverse campagne pubblicitarie condotte dal folle e astuto Gianni Sassi, istiga più di una perplessità: sarà un genio o un cialtrone? Nel dubbio il suo successo si fa sempre più consistente e negli uffici dell’etichetta per la quale incide (la Bla Bla Records) già si sfregano le mani pensando al futuro del Battiato-superstar. Nell’arco di pochi mesi però le cose cambiano. Franco non ci sta più a vestire i panni della rockstar delirante, ha bisogno di purificarsi, di dedicarsi a una musica che lo faccia in primis stare bene. Visto che bene non sta, arriva addirittura a un passo dal suicidio e in generale avverte di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. E non è nemmeno la prima volta.

Nel 1964 è partito dalla Sicilia ed è approdato nella nebbiosa Milano convinto di volere diventare cantante di successo. Nel piccolo paese siciliano dove è nato il 23 aprile 1945 non è che arrivi molta musica. Il suddetto Sanremo sicuramente e i gruppi rock che iniziano ad andare per la maggiore come Beatles e Rolling Stones. Franco però ha in mente anche altro, la scuola cantautorale francese dei vari Brassens, Aznavour, Brel… e quella italiana che sta muovendo i primi passi grazie a futuri colossi come De André, Paoli e Tenco. Purtroppo per lui, una volta emigrato a Milano, le cose non si muovono come sperato. O meglio, l’occasione per registrare e pubblicare le sue canzoni arriva da lì a poco tempo (complice l’aiuto di Giorgio Gaber che scopre il Nostro mentre in un club milanese intona stornelli della tradizione siciliana spacciandoli per propri) ma il genere si distacca parecchio da quello cantautorale, spostandosi verso la musica leggera-leggera.

Nella veste del cantante disimpegnato Franco incide una serie di 45 giri. Alla fine degli anni Sessanta però non ce la fa più. La voglia di gettare tutto alle ortiche è tanta, non è una passeggiata ma Franco è deciso: dice addio alla musica leggera per passare a una sua versione del rock progressivo. Si accasa alla Bla Bla, etichetta alternativa messa in piedi da un altro «leggero» pentito come Pino Massara compra un sintetizzatore elettronico VCS3 che nessuno in Italia possiede e ci da dentro con Fetus e Pollution. Poi nel ’73 una nuova crisi: basta con il progressive e via a una musica più a portata dell’uomo che sta diventando. Franco si immerge nell’ascolto dei guru del minimalismo e della musica contemporanea: Terry Riley, Steve Reich, Karlheinz Stockhausen…

Da lì la sua musica si farà sempre più personale, otterrà risultati artistici strabilianti con Sulle corde di Aries, che mischia perfettamente elettronica con atmosfere acustiche e mediterranee, farà quasi del tutto a meno degli strumenti e si dedicherà al taglia-e-cuci di materiali carpiti dalla radio e infine percorrerà il sentiero della contemporanea tout court con il trittico Franco Battiato, Juke box e L’Egitto prima delle sabbie, dischi ostici ma essenziali nell’evoluzione umana e musicale del Nostro, lavori che allontanano definitivamente il grande pubblico dal musicista.

Non è difficile quindi immaginare le espressioni sul volto di chi nel 1979, solo pochi mesi dopo il super concettuale L’Egitto prima delle sabbie (quasi interamente basato su risonanze create dal pianoforte), accende la radio e ascolta L’era del cinghiale bianco, brano pop condotto da un ossessivo violino e un album che fa registrare un buon successo presso un pubblico che si lascia ammaliare dai profumi di terre lontane e dai ritmi squadrati cari a certa new wave. Alla pubblicazione segue naturalmente la promozione, anche se Battiato non è certo tipo da televisione: non gli piace, si sente a disagio. 

Il massimo della schizofrenia lo raggiunge però nel 1978, quando incide il durissimo Juke box e, nello stesso momento, pubblica un 45 giri a nome Astra. Tanto Juke box è difficile quanto le due canzoni incise come Astra (Adieu e San Marco) sono ritmate e piacevolmente melodiche. Ancora molto distanti dalla qualità alla quale Franco ci abituerà dopo la svolta pop, ma già con diversi elementi che caratterizzeranno un disco come L’era del cinghiale bianco: l’ostinato di violino, il ritmo e i sintetizzatori. Questi hanno lasciato da parte le urla elettroniche di Fetus e si accontentano di colorare un tessuto sonoro sul quale si staglia la voce distante di Franco alle prese con un paio di testi in francese, uno di questi cantato usando un megafono.

In quegli anni è così: Franco Battiato le prova tutte, da una parte il pop, dall’altra la sperimentazione. Con grande furbizia e intelligenza, caso unico in Italia, Battiato riuscirà a fare tutto e a farlo benissimo. Quando pubblica L’era del cinghiale bianco, si rende benissimo conto che, insieme alla qualità della musica, c’è bisogno di presentarsi in un certo modo. Non c’è progetto pop che non basi il suo successo oltre che sulle canzoni anche sul personaggio. Battiato a modo suo è sempre stato un personaggio, anzi tanti: il cantante confidenziale, la rockstar trasformista, il fricchettone perso nei viaggi sonori, l’austero compositore. Tutti travestimenti che in parte lo imbarazzeranno anche un poco ma che sono parte di un cammino volto alla conoscenza di sé, all’evoluzione: «E quanti personaggi inutili ho indossato/ io e la mia persona quanti ne ha subiti» canterà nel 1998 in Lode all’inviolato. 

Per il suo debutto nazional-popolare il Nostro opta per un semplice impermeabile beige. Franco Battiato, si sa, non è uno che si adatta facilmente alle mode imperanti, anzi, più volte sceglie di andare controcorrente, un imporre la propria personalità che gli dice di non adattarsi, di cercare sempre un modo personale di esprimersi. Cosa può raccontare a un Pippo Baudo, conduttore abituato a tutt’altro genere di personaggi? Dimostrando scarsissima empatia Baudo cerca di farlo a pezzi, e in parte ci riesce. Lo canzona sin dall’inizio quando gli fa notare l’abbigliamento poco consono, subito però messo in riga da Franco con un fiero «È instabile e sono di passaggio». Quando però il Pippo nazionale comincia a citargli elementi che non c’entrano assolutamente nulla in quel contesto, come stralci dalle note di copertina di Franco Battiato, ecco che Franco rimane spiazzato e non sa più che dire. Il pubblico se la ride, Baudo lo guarda come se stesse parlando a un completo allocco. Questo è il clima che Franco si trova innanzi quel pomeriggio di primavera 1980, negli studi Rai di Domenica in. Franco osserva con il suo sguardo da sfinge, dentro è ferito e in parte lo dà anche a vedere, ma registra tutto, prende nota, medita vendetta. In un modo tutto suo.

 

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