#SentieriSelvaggi30 – Anniversari – Stallone e il Cyberpunk (#3)

Il 1 aprile 2018 saranno trascorsi 30 anni dalla nascita della rivista di cinema Sentieri selvaggi: la ripercorreremo, giorno per giorno, attraverso una carrellata di articoli, news, eventi, commenti e ritrovamenti vari dalla storia e sulla storia della rivista nata il 1 aprile 1988.

“Grazie a Stallone e malgrado il suo corpo, abbiamo la possibilità di intravedere quello che sarà il cinema di domani: assenza di corpo, trionfo dei sentimenti, pratica del sacro, rappresentazione del mondo complesso. I muscoli, il sangue, le vene di Stallone sono messi in bella evidenza ma il corpo dell’avversario e del nemico, quello viene soggiogato, deriso, annullato, mutilato. Infine: esplode. Ritorna alla mente Horror in Bowery Street, un film ‘estremo’ in cui i corpi si scioglievano o esplodevano. Sono fasi, eventi terminali che vanno colti, anche se saranno altri – che non Stallone – ad approfondire.” “Se Sylvester Stallone fosse nato solo per far sbottare i critici, per irritarli e per farli diventar viola dalla rabbia, questo sarebbe già un bel risultato – basterebbe questo a renderlo degno di ammirazione.” “Il silenzio della voce, la vuotezza dello sguardo: ciò è indice – secondo alcuni – dell’assenza dell’attore . E se due più due fa quattro, Stallone interpreta alcuni suoi film da non-attore, cioè non recita. Tale visione del mestiere attoriale dimostra rigurgiti tardoromantici da critica teatrale. Lui, Stallone, dimostra – invece – , volontariamente o involontariamente, quanto sia cinematografico il corpo umano, grazie soprattutto all’amore per il dettaglio che, grazie al cinema, trionfa. Gli esercizi fisici ai quali si sottopone prima dei suoi film, equivalgonoSentieri Selvaggi Stallone a quelli d’impostazione degli attori in genere.” (Estratti – a firma ‘d.s.’ – da Voci dell’immaginario stalloniano, a cura di Marco Martani e Demetrio Salvi).

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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Tra le ‘operazioni’ portate avanti da Sentieri selvaggi in tutte le sue forme e reincarnazioni, il numero della fanzine sostanzialmente monografico dedicato al cinema di Sylvester Stallone uscito in allegato a Cineforum nel settembre 1990 è sicuramente la più estrema – l’atto d’amore per il cinema più alto e puro, la dichiarazione di poetica più precisa e perfetta (non a caso, è quello che da sempre viene immancabilmente additato per dare un’idea delle convinzioni critiche di Sentieri Selvaggi…). Non perchè si tratti del cineasta più sentito e amato da Federico Chiacchiari e Demetrio Salvi (i numeri e i libri su John Belushi e Massimo Troisi si portano appresso tutta un’altra natura personale, sentimentale ed affettiva che li lega ai personaggi oggetto dell’analisi), né perchè Sylvester Stallone sia investito dagli ‘sguardi selvaggi’ dell’aura di intoccabilità che illumina altri dèi del loro piccolo Olimpo privato – e anzi, nei rispettivi saggi all’interno del numero, Roberto Silvestri e Daniela Catelli si affrettano a sottolineare che “non è un cineasta che si adora sempre e comunque” (“con Stallone si comunica a tratti, a volte”), proponendosi al contempo di “leggerlo come un qualsiasi attore di medio livello, desideroso di migliorarsi. Ai posteri.” No: il valore della piccola monografia su Stallone, dato per recepito l’immenso coraggio di occuparsi in maniera analitica di uno dei personaggi più osteggiati dell’intero decennio appena trascorso, gli Anni ‘80, sta tutto nella sua essenza di paradigma del modo di ‘operare’ proprio di Sentieri selvaggi sui materiali’ dell’immaginario cinematografico americano e non – visti in tutta la loro potenza immaginifica ed archetipica senza alcun filtro ideologico o teorico, restituiti ad un esercizio di critica che per la prima volta, e gioiosamente, li valuta al pari di tutte le altre sortite industriali dello sguardo, assegnando loro un posto che spetta e che molto spesso viene negato per assurdi preconcetti ed ottusità ‘autoriali’.
Da questo punto di vista, il ribaltamento acutissimo operato da Federico Chiacchiari nel suo pezzo di apertura,

sentieri selvaggi sylvester stallone

Comment peut-on etre communist-stallonien?, rappresenta forse il primo esempio di un procedimento provocatorio e fortemente destabilizzante sulle comuni
certezze della critica e della cinefilia che Sentieri selvaggi ripeterà molto spesso in altre occasioni, e con altre – spesso ugualmente intelligenti – argomentazioni, sino ad oggi. Ne stralciamo un paio di brani:
Stallone è di destra? mah! È stato detto questo di Don Siegel, Samuel Fuller, Clint Eastwood e più recentemente John Milius (per il suo Alba Rossa, altro film incompreso, atroce messaggio contro tutte le guerre e preso per un film di propaganda…). Sono discussioni inutili e pedanti. Di certo sappiamo che Stallone interpreta sempre personaggi contro, antistituzionali. Stallone è un vero e proprio eroe proletario, da sala di periferia, ammirato dai “coatti” di tutto il mondo per la sua capacità di reagire e combattere sempre e comunque le sue battaglie, anche quelle (soprattutto) perse in partenza (v. Rocky). Oltre ai Rocky e Rambo Stallone è stato camionista proletario anti-riccone in Over the Top, carcerato anti-direttore in Sorvegliato Speciale, operaio anti-padrone in Fist. Quello di Stallone (soprattutto nel ciclo Rambo) è paradossalmente un cinema contro l’ideologia degli Anni ‘80. Capelli lunghi da hippies Anni ’60, abbigliamento sporco-casual, odio per gli alti comandi e per i piccoli burocrati. Se c’è stato, nell’ultimo decennio, un cinema antiyuppies, quello di Sylvester Stallone ne è senz’altro il prodotto più significativo.
Insomma se finalmente non è più una bestemmia affermare che Clint Eastwood è l’ultimo dei grandi cineasti ‘classici’ rimasti, altrettanto dovrebbe esserlo il proclamare Sylvester Stallone erede della tradizione dei ‘duri’ (Peckinpah, Aldrich). Ma forse un’affermazione del genere, nel 1990, è ancora scandalosa. Probabilmente bisognerà aspettare il 2004, quando Stallone realizzerà il suo Bird, per poterlo sentir definire e analizzare dalla critica in quanto ‘autore’. Noi comunque preferiamo chiamarlo cineasta, e pensiamo sia il caso di studiarlo e valutarlo ora. Stallone è stato con Spielberg il cineasta di maggiore influenza sull’immaginario collettivo degli Anni ’80. Ha descritto con notevole dovizia di particolari i meccanismi della fabbrica del successo e del mito, ha lavorato sul corpo e sullo sport come sulle due coordinate centrali della cultura del decennio. Ha inserito in piena ‘cultura di rimozione’ l’ossessione per la memoria, il reduce come monito per eventuali future guerre ‘sbagliate’. […] In attesa di vederlo invecchiare (Rocky V) e combattere per giuste cause (Rambo IV con Greenpeace?) o magari eroe in qualche film di fantascienza…

Le intuizioni di Chiacchiari sono talmente forti che non stupisce per niente, ben dieci anni dopo, leggere tra le maglie della rivista online quanto segue a firma di Francesco Ruggeri, subito dopo l’avvento nelle sale di Get Carter, con Stallone appena uscito dal periodo più
buio e per molti indifendibile della sua carriera:
Un po’ tutti i capitoli dell’avventura cinematografica di Stallone potrebbero essere interpretati come il climax discendente di un corpo e della sua ragione di essere all’interno di un meccanismo sociale, politico e culturale che lo respinge dal proprio tessuto. […] Una dimensione corporea che si contraddice per quello che è apparentemente. Eccolo quindi il valore finemente eversivo e per certi versi antimodernista del suo cinema, capace di vivere un’apparenza di forme risolte in sé (l’ipermuscolarità ingombrante, il carattere di deus ex machina per ogni tipo di situazione) per poi disfarle attraverso un’estetica della sconfitta dalle proporzioni tutt’altro che serene o riconciliate. All’interno di una dimensione culturale legata al trionfo del corpo-integrato nel sistema, Stallone ha avuto il coraggio di mettere in crisi l’idea stessa di integrazione, mostrando i lati bui di una condizione (quella del proletario Balboa, quella del disadattato Rambo e ancora quella dell’escluso dal nucleo familiare in Over the top) difficile da gestire se non appunto “tornando sui suoi passi.” 

È clamoroso oggi vedere come la stessa critica che ha osteggiato il cinema di Stallone, senza mai perdere occasione di dileggiare i suoi sostenitori, si sia più volte dovuta ricredere di fronte alla lucidità messa in atto dall’attore e regista nei recenti Rocky Balboa e John Rambo, pellicole che si presentano davvero come la teorizzazione compiutamente filmica del pensiero su Stallone di Sentieri selvaggi. È probabile che nessun altro percorso artistico abbia mostrato la lungimiranza della rivista su un oggetto di studio, come è accaduto con l’ultimo cinema di Sylvester Stallone. Di certo lo speciale a lui dedicato nel settembre 1990, non solo rimane ancora oggi l’unico materiale qualitativamente alto ed esaustivo reperibile in Italia, ma conferma anche la crescita della fanzine come testo di riferimento per l’analisi filmica e concettuale.

 

Sentieri selvaggi Cyberpunk

Il numero successivo, dedicato al
Cyberpunk, è emblematico sotto molti punti di vista e conferma questa graduale crescita.
Se infatti quello precedente su Stallone rappresenta perfettamente lo spirito politico, criticamente anarchico e “serio” della rivista, il
numero 6 appare ancora oggi come l’esito più ambizioso e stimolante raggiunto dalla redazione fino a quel momento.
Progettato durante la Prima Guerra del Golfo del gennaio 1991 – conflitto in cui la spettacolarizzazione dell’immagine deflagra definitivamente nella sua neutralità postmoderna – ma uscito alcuni mesi dopo la sua conclusione, il numero sul Cyberpunk si
propone, come era già accaduto con ‘Provaci ancora Sly’, quale uno dei primi studi critici e informativi sul tema. Vista la formazione culturale di Federico Chiacchiari e l’identità modernista ed eterogenea da sempre assunta da Sentieri selvaggi, ci verrebbe da credere oggi che ‘Cyberpunk’ fosse da sempre il numero che il direttore e la sua redazione sognavano di fare. In esso infatti convergono tutte le influenze artistico-culturali che hanno plasmato l’anima e lo sguardo della rivista già nei numeri precedenti. E nello sfogliare questo speciale del 1991 il colpo d’occhio è immediatamente rilevante anche per la sua qualità grafica: oltre ai fotogrammi estrapolati dai film analizzati, ci sono infatti le bellissime illustrazioni del fumettista Antonio Franzese ad accompagnare i testi.
La complessità del tema viene reso evidente già nel saggio ‘Corpo Anima & Cyberpunk’, di F. Chiacchiari, in cui viene preso in esame sia il ritardo della saggistica italiana nei confronti del ‘genere’, che le imprevedibili diramazioni letterarie (Philip K. Dick, William Gibson), cinematografiche, musicali e sociali dello stesso. È proprio il direttore a parlare disentieir selvaggi cyberpunkdifficoltà ad orientarsi nell’universo cyberpunk, che si sviluppa contemporaneamente in più direzioni, davvero un universo plurale di idee, personaggi, movimenti spesso i più diversi tra loro. Si va dagli scrittori di Science Fiction americani (i vari Gibson, Sterling, Shirley, ecc.) che hanno reinventato il genere innescando nella fantascienza un ritorno alle origini simile a quello praticato dal punk nei confronti del rock; poi ci sono Timothy Leary, il ‘guru’ della psichedelica anni sessanta, le sue visioni profetiche e le applicazioni ludico/industriali dello spazio virtuale; i centri sociali milanesi raggruppati attorno alla rivista Decoder, che leggono il Cyberpunk come nuovo movimento underground antagonista e attrezzato tecnologicamente; così come i gruppi dei cosiddetti hackers, i pirati informatici diffusi soprattutto in Germania e negli USA, i neosituazionisti della rivista inglese Vague, il misticismo new age dei californiani di Mondo 2000, i graffiti, l’hip pop, la musica rap, i fumetti giapponesi, l’hi-tech, il pop underground, i video rock, lo scratch, i videogiochi, i Personal Computer… insomma per dirla con William Gibson “l’arte della poetica pop è quella del neologismo, e il cyberpunk è un termine vuoto, senza senso, pronto a ricevere significati”.

La lunga elencazione di questo frammento è emblematica sia della completezza dello speciale – nonostante le diverse sfumature dei singoli articoli, il numero è coerentemente magmatico proprio per la sua poliedricità tattile e contenutistica – che della profonda simbiosi che in un certo qual modo Sentieri selvaggi ha sempre avuto con i linguaggi multimediali (e qui è sin troppo ovvio agganciarsi all’indispensabile natura interattiva che la rivista oggi possiede). Si veda anche il preziosissimo glossario ‘Frammenti Cyberpunk’ curato da Antonio Fabozzi, ricco di citazioni estrapolate da William Gibson, Kim Stanley Robinson, Bruce Sterling, Robert Wright, Timothy Leary e Steven Spielberg.
Il cinema in senso stretto emerge poi negli articoli firmati da Sergio Brancato, Gianni Mammoliti, Giuseppe Gariazzo e Marco Martani. Brancato, ad esempio, in ‘Cinema Cyberpunk’ ha il merito di ricordare l’importanza di un film già allora dimenticato come Tron di Steven Lisberger, mentre ‘Il trionfo nero della carne’ di Giuseppe Gariazzo è un vero e proprio saggio “sperimentale” sulla figura dell’automa, dell’uomo-macchina.
La conferma della assoluta completezza ed eterogeneità di questo sesto numero arriva poi dagli ultimi saggi, entrambi dedicati al fumetto. ‘Cybercomix: elettrosegni & nuvole digitali’ di Antonio Florio è infatti incentrato sui primi esperimenti di comics italiani dedicati al cyberpunk, con più di un riferimento all’americano Frank Miller, visto come “colui che con maggior personalità è riuscito a trasporre nei comics le cupe atmosfere metropolitane di Gibson e soci, attraverso opere di grosso impatto spettacolare quali Barman: the
Dark Knight Returns, Give me Liberty, Hard Boiled, che hanno contribuito anche nel nostro paese a destare maggior interesse verso la letteratura cyberpunk”. Una piccola ma accurata analisi di Akira di Katsushiro Otomo porta la firma di Marco Martani, mentre la chiusura è tutta di Antonio Franzese con un saggio estremamente lucido sulla rappresentazione iconica del corpo post-umano della cultura cyberpunk, attingendo a più riprese dalle opere dell’illustratore H. Sorayama.
Detto questo è evidente come il sesto numero di Sentieri selvaggi sia da considerarsi un piccolo grande libro sul cyberpunk cinematografico e non solo, pieno zeppo di divagazioni, approfondimenti, accostamenti interdisciplinari e contaminazioni artistico-filosofiche. Come sarà riscontrabile anche nei numeri successivi (quelli dedicati alla malattia e al cinema napoletano) il tema di partenza non impedisce alla rivista le sue proverbiali diramazioni trasversali e inclassificabili. Di certo l’“ospitalità” di Cineforum comincia a rivelarsi stretta a Sentieri selvaggi. Non tanto in termini di libertà o incompatibilità critica con la prestigiosa “cugina” bergamasca, quanto di spazio e
fagocità creativa. Le venti, trenta pagine all’interno di Cineforum probabilmente non bastano più ai “selvaggi”. È giunto il momento di moltiplicare pagine e temi, allargare i confini del mercato e sperimentare nuovi testi e formati. Le notevoli dimensioni di
‘Cyberpunk’ sono già l’indice di un’esigenza irrefrenabile di scrittura e pubblicazione. È la stessa redazione ad annunciarlo alla fine dell’editoriale di questo importante numero: Sentieri selvaggi si sdoppia e diventa anche una collana di libri di cinema. Da questo momento in poi l’esperienza su Cineforum e quella dei libri cammineranno parallelamente senza mai cedere un passo alla libertà creativa e alla passione sincera.

 

Archivio #3 dal volume  UNA PASSIONE SELVAGGIA – 20 anni di storie (e vite) di Sentieri selvaggi, di Carlo Valeri e Sergio Sozzo 

 

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