#SentieriSelvaggi30 – Massimo Troisi e il cinema napoletano (#5)

Il 1 aprile 2018 sono trascorsi 30 anni dalla nascita della rivista di cinema Sentieri selvaggi: la celebriamo, giornalmente, attraverso una serie di articoli, news, eventi, commenti e altre storie.

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Il 1 aprile 2018 sono trascorsi 30 anni dalla nascita della rivista di cinema Sentieri selvaggi: la celebriamo, giornalmente, attraverso una serie di articoli, news, eventi, commenti e altre storie.

Il volume Massimo Troisi – Il comico dei sentimenti, a cura dei fondatori Federico Chiacchiari e Demetrio Salvi, occupa uno spazio di rilievo nella storia di Sentieri Selvaggi, tale da poter essere considerato probabilmente il più prezioso e fondamentale tassello di
quella collana, non fosse altro che in ragione della presenza, tra le pagine della pubblicazione, di una esclusiva ed esaustiva intervista rilasciata personalmente da Troisi ai due curatori. Si tratta, per inciso, di una delle migliori chiacchierate di Troisi con dei
giornalisti che è possibile leggere ‘in giro’, in buona parte e sorprendentemente dedicata a questioni formali e tecniche su cui il regista si attarda dimostrando il suo valore professionale magari per qualcuno insospettabile data la sua matrice comico-attoriale. A corredo del volume un apparato iconografico pieno zeppo di foto che ritraggono Troisi intento a muovere la macchina da presa di persona sul set dei suoi film, un dettaglio che segna già la distanza e la novità nei confronti degli altri libri del periodo, nessuno dei quali può ‘vantare’ un intervento diretto dell’autore interessato, o una manciata
di dichiarazioni di primissima mano.
Massimo Troisi – Il comico dei sentimenti è, come già accaduto con David Lynch, il primo tentativo mai pubblicato di affrontare in maniera analitica le opere dirette dall’autore partenopeo (dal clamoroso esordio con Ricomincio da Tre sino al bellissimo Pensavo fosse amore invece era un calesse, via Scusate il ritardo – il più bel film italiano degli Anni ‘80 in assoluto –, Non ci resta che piangere in coppia con Roberto Benigni ma in larga parte diretto dal solo Troisi, e Le vie del signore sono finite).
Il libro si inserisce così in un progetto volto a restituire una dignità autoriale a una serie di figure vittime della cecità della critica istituzionalizzata (si pensi ai volumi dedicati a Kevin
Costner, Kathryn Bigelow, Luc Besson…), e non è casuale che alcune delle monografie su questi autori costituiscano ancora oggi dei casi rari nella bibliografia in lingua italiana.
Scrive Federico Chiacchiari nell’Introduzione all’edizione aggiornata con la trattazione del film Il Postino (riedizione ‘postuma’ del libro ‘in morte’ di Massimo Troisi nel 1996):
È il nostro libro più amato e sofferto. Il libro da cui è nata la nostra collana e la
nostra casa editrice. Perchè tutto nacque dalla voglia di fare un libro su Massimo e
di far scoprire al mondo (che presuntuosi…) quanto fosse un bravo cineasta e non
solo un comico geniale.” E altrove, nel capitolo “Il cinema dei sentimenti”: “Può sembrare strano pensare a Massimo Troisi come ad un ‘cineasta’. La ‘forza’ evidente della sua comicità, del suo corpo comico, del suo essere noto soprattutto in quanto attore, rende difficile – persino allo stesso Troisi – pensarlo, immaginarlo, considerarlo come un ‘vero’ regista cinematografico. Abbagliati un po’ tutti dalla sua straordinaria verve comica nessuno è riuscito a vedere che ‘grande’ facitore di cinema è: sceneggiatore, innanzitutto. Troisi nasce infatti come scrittore di teatro. […] Poi regista, infine produttore (e ultimamente anche di film non ‘suoi’) oltre che, naturalmente, attore. In questa sua poliedricità, che non ha assolutamente nulla di megalomane (anzi!), Troisi ha rappresentato nel corso degli Anni Ottanta un caso davvero unico: amato dal pubblico che ha decretato per i suoi film sempre dei grossi successi, snobbato, quando non stroncato
dalla critica, sempre pronta a leggerne le insufficienze registiche, dalle povertà della messa in scena, alla ‘fissità’ della macchina da presa passando per una presunta incapacità di ‘legare’ le storie e di lavorare a ‘fondo’ con i personaggi. […] Tutti contro Troisi e la sua macchina da presa sempre ferma: ma davvero è solo lì la buona regia? E il senso dell’inquadratura (cioè quello che si vede nel ‘quadro’)? E la cura dei dettagli? E il décor (le scene, gli interni dei suoi film, non faraonici ma ‘precisi’)? E i ‘raccordi’, la scelta dei piani, le entrate e le uscite, la direzione degli attori, etc…?

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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Segue in larga parte questa linea interpretativa il numero di Sentieri Selvaggi allegato a Cineforum n. 344 (maggio 1995), intitolato Ricomincio da Napoli e dedicato alla ‘nuova scuola napoletana’ che tra il finire degli Anni ‘80 e la metà degli Anni ‘90 sembra far sperare in una rinascita del cinema italiano per mano partenopea, con personalità come Martone, Capuano, Corsicato…“ma la cosa che credo sia importante è che questo cinema sfugga a qualsiasi tipo di classificazione o etichetta gli si voglia appiccicare”, dichiara proprio Corsicato in un’intervista ad Antonio Capuano per la rivista Dove sta Zazà, “nel senso che non c’è, tra chi lo fa, una traccia comune, non segue né insegue comuni intenti stilistici né tematici né di tendenza – direi semplicemente che ci sono registi che in questo momento, e speriamo che continui, esprimono un cinema libero, diverso, imprevedibile, e lontano da certi modi di fare, io credo, abbastanza stantii: solo per caso, questi registi sono napoletani, ma sono…siamo così diversi tra noi, così differenti i nostri film, che nessun equivoco potrebbe mai nascere”. Una speranza poi disattesa o svanita, ma che per un po’ aveva acceso gli entusiasmi degli animi critici più aperti agli squarci di luce inattesi.
Scrive infatti Giuseppe Gariazzo proprio su questo numero di Sentieri selvaggi (che  contiene altresì interventi di Federico Chiacchiari, Dora Mellone, Demetrio Salvi, Antonio Franzese, Sergio Brancato, Lella Tricarico, Anna Pellegrini, Giacomo Caruso, Giona A. Nazzaro), all’interno di un lucidissimo saggio dedicato a “Napoli corpi e luoghi”:
Luoghi della memoria. Luoghi del cinema. Una città: Napoli. E i suoi quartieri, le sue zone, i corpi che la compongono. E tre film usciti tutti a distanza di poco tempo (tra il ’91 e il ’93) che si immergono nella città, nei suoi vicoli, nelle sue strade, nelle sue luci. Nel corpo esteso e luminoso della città (barocca, per riprendere il titolo di un’opera di Martone). I tre film sono Vito e gli altri (1991) di Antonio Capuano, Libera (1993) di Pappi Corsicato, Morte di un matematico napoletano (1993) di Mario Martone. ‘Esiste, oggi, un cinema la cui testa è a Napoli’ (Pappi Corsicato). Ed è dentro le sue viscere, dentro luoghi a più strati contaminati con la memoria e con il cinema, con la memoria talvolta privata e intima, detta/non detta, lasciata percepire (Martone), e con la memoria del cinema ritornante e diffusa (Corsicato), e con la memoria dei media ri-guardata per farne scaturire cortocircuiti rigeneranti (ancora Corsicato, e soprattutto Capuano). Corpi e luoghi che appartengono ad una storia, che vivono e si portano addosso una loro storia e una storia della città, con età diverse da proporre a chi quei luoghi li guarda, scrive (i racconti fulminanti di Peppe Lanzetta raccolti in Figli di un Bronx minore), filma, trasporta in suoni jazz o rap. […]
Ma una visione dilatata che si apre al tempo e alla storia dei luoghi e a quei luoghi segnati dallo scorrere del tempo e delle nascite/morti, giovani/vecchi luoghi fermati su una pellicola o su un nastro che muta irrimediabilmente il suo corpo, la sua età, il suo stato alle visioni e ri-visioni del tempo. […] Ri-costruire a distanza/vicinanza estrema, in continua dissolvenza amorosa nella memoria, zone diverse di Napoli che la formano e la modellano e la rendono pulsante. Luoghi della città che dissolvono fra loro e si propongono, fortemente cinematografici, per essere filmati da autori dallo sguardo desiderante, da autori che hanno nel cuore, nella pelle, nella carne, nelle viscere questa città, da autori
che propongono visioni radicali (penso anche all’inquadratura hitchcockiana che apre Rasoi di Martone) e sperimentali all’interno di una semplicità di struttura a contatto con gli elementi di un percorso rigenerante di documentario e finzione. Luoghi che si propongono per lasciarsi filmare con piacere e passione (e purtroppo vengono anche assaliti da occhi molto più superficiali).
Ci piace ricordare a questo punto un altro piccolo speciale sulla
napoletanità, realizzato da Giona A. Nazzaro sulla rubrica home video
Squarci di cinema’ in Cineforum n. 341 e quindi per certi versi
propedeutico a ‘Ricomincio da Napoli’.
L’argomento della rubrica è Nino D’Angelo! Uno peciale sui generis, certo, non associabile immediatamente al cinema di Troisi, Martone e Capuano (peraltro autori diversissimi tra loro), se non altro perché, come ammette onestamente Nazzaro, la contraddizione dei “film interpretati dal cantante napoletano, è che si tratta con tutta evidenza di prodotti commerciali realizzati con una strafottenza becera, al limite della disonestà intellettuale, che li situa al di là di qualsiasi velleità di rivalutazione.” Eppure lo studio di Nazzaro, scavalcando aprioristicamente ogni sovrastruttura di qualità alta del film inteso come oggetto estetico distante, coglie le viscere di un cinema secondario e basso, riconoscendo la sincerità affettiva che quasi
involontariamente finisce con il contagiare i film in questione. A tal proposito, conclude Nazzaro: “Viene semmai da chiedersi come mai Nino D’Angelo non abbia trovato nessuno che sia stato in grado di costruire sulla sua persona dei film credibili anche dal punto di
vista strettamente cinematografico. A nostro avviso Nino rappresenta l’anello mancante di un modo di far cinema autenticamente popolare e quindi l’ultima possibilità seria, genuina, di riagganciarsi al lavoro e alle indicazioni dei Mattoli e dei Matarazzo.
C’è forse un sottile filo rosso che lega Troisi, i partenopei degli Anni ‘90, e il cinema basso di Nino D’Angelo e che non riguarda propriamente la provenienza geografica di queste personalità così diverse tra loro, né la qualità delle rispettive opere, quanto la carnalità messa a nudo e il sentimento nascosto dietro il ‘lavoro’ del cinema. È un atteggiamento critico ed estetico che Sentieri selvaggi applicherà orgogliosamente più di una volta e quasi sempre con film e cineasti italiani.
Spesso accusata di esterofilia o di destrismo filoamericano, Sentieri selvaggi è invece sempre stata un corpo critico attento al cinema italiano indipendente e fragile, quello la cui resistenza al tempo parte già con l’handicap della sincerità inconsapevole perché istintiva. Lo stesso amore rischioso e follemente incondizionato sarà poi riversato su altri piccoli autori nostrani come Mimmo Calopresti, Gianluca Maria Tavarelli e Corso Salani, registi umili e, specialmente nel caso di Salani, sostanzialmente fuori dal mercato; eppure capaci di realizzare un cinema vero, certamente provvisorio, ma mai figlio di calcoli da salotto o di onanismi universitari.
La storia di Sentieri selvaggi non è fatta solo, allora, di scoperte anticipatrici, ma anche – inutile negarlo – di piccole sopravvalutazioni e fraintendimenti, a volte di amori folli non corrisposti e altre volte di cantonate impreviste. Può anche essere un limite questo suo coraggio mischiato a purezza infantile. Di certo, però, è innegabile che sia il dato più incontestabile della sua verginità ideologica, della sua lontananza da ogni snobismo, del suo buttare tutto oltre lo schermo, immergendo se stessi e il cinema in una dimensione ancora non scritta, né pensata, da qualcuno.

 

Archivio #5 dal volume  UNA PASSIONE SELVAGGIA – 20 anni di storie (e vite) di Sentieri selvaggi, di Carlo Valeri e Sergio Sozzo 

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