Senza futuro. Intervista a Pallotta e Rosasco, regista e produttore di Sacro moderno

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Regista e produttore del film presentato ad Alice nella Città ci raccontano in esclusiva il film, tra sfide produttive, una modernità schiacciante e il rapporto con una realtà che sta scomparendo

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Spopolamento, abbandono, mancanza di servizi: la vita dei borghi e dei paesi delle zone rurali non è quella ritratta nelle cartoline turistiche (non è un caso, forse, che in queste manchino spesso le figure umane che abitano quei luoghi). Sacro moderno ci porta nell’Abruzzo in rovina, schiacciato da una modernità di cui ha comunque bisogno per sopravvivere. Il regista Lorenzo Pallotta e il produttore Andrea Rosasco ci hanno incontrati per raccontare il loro film, presentato alla scorsa Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nella Città.

Innanzitutto, come state?

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Lorenzo Pallotta, regista: Bene, ma è un parolone. Siamo in una fase di lavoro continuo.

Andrea Rosasco, produttore: I due fronti principali sono l’anteprima internazionale e la distribuzione. Per quella italiana siamo in fase di valutazione, se possiamo appoggiarci a qualcuno o se dobbiamo autodistribuircelo, il che richiederebbe parecchio impegno. È una situazione complicata, né Lorenzo né io siamo dei nomi grossi, l’argomento non attira l’attenzione, quindi bisogna sondare tutti i terreni.

Com’è stato presentare Sacro moderno ad Alice nella Città?

LP: Abbiamo avuto un bel pubblico nonostante la sala enorme. Ero preoccupatissimo. L’unica cosa che mi è dispiaciuta è che c’è stata una sola proiezione, il che magari ha impedito a qualcuno di vederlo, ma nel complesso sono soddisfatto e i riscontri sono stati positivi. Ho avuto anche la possibilità di confrontarmi con le persone delle zone riprese, che sono venute con il classico autobus dall’Abruzzo (ride, ndr). È gente che non è abituata a questo tipo di cinema. Simone, uno dei protagonisti, è rimasto colpito, Sacro moderno era al di fuori degli standard dei prodotti a cui è abituato.

Come si vive il cinema in provincia?

LP: Nei paesi in cui sono nato il cinema non c’era. Erano e sono luoghi in cui si pensa che il successo sia quello della tv, come in Reality di Garrone. Per me il cinema è arrivato dopo, quando me ne sono andato a Londra a studiare, è stato sconvolgente. In Abruzzo si stanno dimenticando tradizioni e dialetti, si sta perdendo coscienza di ciò che si era. Gli stessi riti che abbiamo mostrato li abbiamo reinterpretati perché si è persa la memoria di come si facevano una volta.

Com’è nato il progetto?

LP: Inizialmente volevo realizzare un documentario d’osservazione, incentrato sulle celebrazioni pasquali in vari comuni abruzzesi e su come queste cambino di luogo in luogo. Volevo raccontare il documentario attraverso lo sguardo di quattro bambini, ma arrivato in quelle zone mi sono reso conto che si erano svuotate e la gente del posto mi ha detto che erano rimasti solo Simone e suo fratello Mattia. Quando l’ho incontrato, si è presentato sgommando su un’ape modificata. Poi ho conosciuto Filippo (che interpreta l’asceta, n.d.r.), che insegna cristianistica e che poteva farmi da consulente. Mi sono detto, allora, perché non concentrarsi su questa storia? Così mi sono trasferito lì e ho cominciato a scrivere. L’obiettivo era quello di fotografare la realtà per fissare nella memoria quello che si sta perdendo e capire cosa salvaguardare.

L’elemento contemplativo rimane in Sacro moderno, come hai bilanciato quest’ultimo con la narrazione?

LP: Il lavoro sul silenzio e sull’invisibile mi ha sempre interessato, così come quello sul corpo e come questo reagisca alla violenza del mondo esterno. Volevo che lo spettatore si perdesse negli sguardi dei personaggi, che vi cercasse sé stesso. Nonostante l’approccio documentaristico, ho lavorato con i protagonisti come si lavora con gli attori, cercando di riportare la loro vita nel cinema, attraverso la messa in scena. Con il primo fonico Andrea Oppo abbiamo fatto un lavoro sul suono già in preproduzione, ponendoci l’obiettivo di creare già un suono quasi a 360°, cercando la spazialità del suono già in presa diretta. L’approccio estetico l’abbiamo trovato davvero durante le riprese, lì ho capito di dover far sentire la concretezza dell’attore. La costruzione narrativa si è costruita nella mia mente insieme con il direttore della fotografia (Andrea Manenti, n.d.r.), mentre vivevamo lì. Infatti, penso si possa sentire come a partire dalla sua metà, Sacro moderno diventi più un film narrativo. È stato difficile gestire degli attori non professionisti che dopo un po’ che si ripeteva una scena magari si stufavano.

Come si è svolta la lavorazione del film?

AR: Siamo stati fortunati, perché l’ultimo giorno di riprese della prima fase, dopo la quale dovevamo cercare nuove liquidità, è scattato il primo lockdown. Avevamo già venti giorni di riprese fatte, quindi Lorenzo ha avuto il tempo di rivedersi tutto il materiale con il montatore, decidendo quale linea portare avanti e quale no. Dopo la riapertura, siamo riusciti a pianificare un’altra settimana di riprese.

LP: Dopo questa settimana per chiudere la linea narrativa dell’asceta, abbiamo fatto un’ulteriore settimana di riprese, la più importante a livello produttivo e di senso, con scene di massa di processioni e riti. Temevo poi che nel tempo trascorso i ragazzi fossero cambiati troppo.

AR: Quello è stato il momento in cui o si girava o si girava. Se prima avevamo una base economica da cui partire per girare, qui abbiamo dovuto fare un investimento personale per le riprese.

LP: È stato, di volta in volta, un lavoro di canalizzazione di quello che vedevamo, scegliere dopo cosa ci interessava e cosa no. A posteriori, è stato un bene avere più tempo per pensarci.

AR: Anche perché l’atmosfera è rimasta la stessa dall’idea iniziale fino al prodotto finito. Il direttore della fotografia Andrea Manenti è stato fondamentale, perché ha abbracciato il progetto al di là del semplice lavoro, come tutti quelli che hanno lavorato a Sacro moderno. Ma lui, insieme a me e Lorenzo, è stata l’unica persona che c’è sempre stata per tutto il progetto.

Vi siete sentiti inseriti nella realtà che avete rappresentato o lo sguardo è rimasto esterno?

LP: Personalmente sento di esser stato completamente dentro quella realtà. Ho anche preteso che Andrea Manenti venisse a viverci un mese per fare lo stesso. È stata però un’entrata graduale, come è ravvisabile in Sacro moderno. Prima sono arrivato da passante, raccontando il quadretto, per poi penetrare nella vita dei protagonisti e del paese. Tanto che i tempi delle riprese si adattavano a quello delle vite dei protagonisti. Se Simone non voleva alzarsi una mattina, noi dovevamo aspettare che lui si alzasse e ci desse l’ok per iniziare a girare.

AR: Io mi sono sentito tra il dentro e il fuori. Tanto che nel paese ero percepito come il classico produttore ricco con il sigaro. Era umanamente difficile gestire questa cosa. Però questo mio distacco ha aiutato ad avere un occhio esterno, simile magari a quello dello spettatore, che riuscisse a riconoscere realtà e finzione.

C’è un movimento ambiguo tra modernità e realtà di paese, come se contemporaneamente la seconda soffrisse la prima pur avendone bisogno per andare avanti

LP: C’è un paradosso nei personaggi e nelle persone del luogo: dicono che non ci sono servizi, che non c’è futuro, ma loro sono i primi a mettere dei paletti. L’atteggiamento nei confronti della modernità è spesso di paura o di disinteresse. Non c’è voglia di modernizzare con coscienza, contaminando in maniera buona quello che c’è. Sacro moderno vuole mostrare anche la violenza fisica e psicologica per dimostrare di poter andare avanti, di essere il nuovo, come quella nei confronti dell’agnello, che è un po’ la personificazione di tutti i personaggi. Volevo che rimanesse la memoria di quello che è e che sta scomparendo, per capire cosa c’è da salvare o da cambiare.

Il personaggio di Simone è emblematico nel fatto che anche lui, come la generazione più anziana, sembra subire la modernità

LP: Non credo che Simone abbia una vera via d’uscita. Non prende una vera decisione assumendosi il peso della sua comunità attraverso un gesto violento. La sua generazione, quella dei diciottenni, sembra schiacciata tra un’influenza negativa del passato e una modernità che subisce. L’unica speranza è il suo fratellino Mattia. Mentre guarda il paese nella nebbia forse sta sviluppando un punto di vista diverso, che lo porterà a non fare come gli altri.

AR: Le tecnologie che hanno in mano li dividono, perché sono strumenti senza un mediatore. Rimangono nella loro bolla e il film è stato un modo anche per uscirne.

LP: Nella narrazione abbiamo estremizzato questo isolamento, ma lui ora si trova veramente nella situazione di decidere se andarsene o rimanere, e sembrerebbe aver scelto la prima.

AR: Noi eravamo gli unici che andavano e venivano dal paese, forse proprio questo andare e venire, vedere persone provenienti da altri posti hanno fatto capire sia a lui sia al paese che altro è possibile.

Con il furto e l’uccisione dell’agnello abbiamo il personaggio dell’eremita che brucia tutte le sue cose. È la fine di ogni idea di innocenza e di vita incontaminata?

LP: Per Filippo, nonostante abbia vissuto in un mondo che sembra lontano da tutto, comunque qualcuno arriva a contaminarlo. Doveva esserci inizialmente un altro finale, più francescano, con lui che entra nella foresta nudo, spogliato di qualsiasi vestito. Ma Sacro moderno doveva essere un film pessimista fino all’ultimo frame di Mattia, che rappresenta un barlume di speranza. Eccetto quello, è una caduta negli inferi.

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Perché hai scelto di non mostrare la morte dell’agnello?

LP: Per me non era necessario mostrare la violenza del visibile, quanto piuttosto far percepire quella psicologica attraverso la reazione di Simone. Era importante che lui non riuscisse nemmeno a guardare per mostrare la sua diversa sensibilità. Non aveva mai fatto una cosa del genere, nonostante all’inizio ci mentisse dicendoci di averlo fatto più volte. Rimane però una scena molto violenta. Quella è stata una delle poche scene che abbiamo girato con un monitor, quindi non ero vicino ad Andrea Manenti. Lui essendo vicino all’agnello aveva una percezione più forte dell’imprevedibilità della situazione, visto che Rolando (il nonno di Simone che doveva macellare l’agnello, n.d.r.) aveva bevuto molto ed era pericoloso, oltretutto per lui era una cosa normalissima. Quando abbiamo girato la scena per la prima volta e Rolando ha avvicinato il coltello alla gola dell’agnello, quasi penetrandola, l’operatore si è spaventato talmente tanto da chiamare lo stop.

AR: Comunque, abbiamo le prove che è ancora viva (dice mostrando una foto dell’agnello divenuto pecora, n.d.r.).

 

Porterete il film al cinema?

LP: Lo spettatore deve potersi perdere nell’immensità dei luoghi e dei suoni. Vedere Sacro moderno fuori da un cinema lo renderebbe più faticoso. Non ha senso di esistere senza la sala e faremo di tutto.


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