Senza lasciare traccia, di Gianclaudio Cappai

Un’opera prima che è la rappresentazione onirica dei sensi, delle ferite del passato, della metamorfosi biologica di un corpo/metafora cinematografica.

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Il fuoco e la carne. La materia, il buio. Un corpo da plasmare, da curare/restaurare senza lasciare traccia. L’opera prima di Gianclaudio Cappai arriva sette anni dopo (davvero troppi!) So che c’è un uomo, quel sorprendente medio metraggio che vedemmo a Venezia nel 2009 e già conteneva i prodromi del talento percettivo e fisico del cineasta cagliaritano classe 1976. Si parte da una sceneggiatura scritta dallo stesso Cappai insieme a Lea Tafuri e che all’inizio sembra prendere le mosse da certo cinema da camera anni ’60, con zoom vintage quasi impercettibili che rubano i dialoghi di una giovane coppia in procinto di cambiare città. Bruno infatti sta per accompagnare Elena al suo nuovo lavoro. Per farlo deve fare ritorno in un luogo del passato dove da bambino ha vissuto un trauma mai davvero superato, radice, probabilmente, della malattia che si porta dentro. Così il centro drammaturgico e visionario dei ricordi e della vendetta che il protagonista intende consumare diventa una fornace dantesca, dove per quasi tutta la seconda parte il film decide di implodere per poi improvvisamente esplodere nelle fattezze (im)possibili di un thriller dell’anima dagli effetti quasi taumaturgici.

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Più che un viaggio nella memoria, Senza lasciare traccia è la rappresentazione onirica dei sensi, delle ferite, della metamorfosi biologica di un corpo, che diventa spazio cinematografico e forse persino metafora di un mondo arcaico in via d’estinzione. Il film compie un lavoro sull’immagine e sulla materia del cinema complesso, perché carico di sfumature linguistiche impercettibili tra movimento e staticità, intimismo europeo e plasticità. Una violenza trattenuta, quasi insostenibile quella di Cappai, che in parte si riallaccia al suo lavoro precedente e non sfocia mai nella freddezza ma anzi – quasi miracolosamente – assurge a una dimensione di lieve astrattezza e liberazione. Qui parliamo di un cinema personalissimo, coraggioso, che chiede qualcosa in più allo spettatore per dare in cambio un’esperienza, un volume di suoni e sentimenti estremamente profondo e sincero. E nei tormenti di una storia dilaniata c’è spazio per un abbraccio finale che si libera dal passato per aprirsi a nuovi tracciati, ad architetture magari non ancora perfette ma che il cinema italiano può e deve percorrere.

Regia: Gianclaudio Cappai

Interpreti: Michele Riondino, Valentina Cervi, Elena Radonicich, Vitaliano Trevisan

Distribuzione: Hirafilm

Durata: 96′

Origine: Italia, 2016

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