Senza luogo e senza tempo. La scomparsa di Jeanne Moreau
Si è spenta oggi a 89 anni una delle attrici che hanno segnato il cinema degli ultimi 60 anni. Con il suo sguardo unico e la voce inconfondibile. Ecco un ritratto che vorrebbe essere una lettera
Non è un ricordo di Jeanne Moreau. O almeno non lo è soltanto. Forse è una lettera d’amore. Di quelle che si scrivono a una persona che non si è mai conosciuta. Eppure sembra di aver vissuto parte della sua vita con lei.
Jeanne Moreau ci ha lasciato oggi a 89 anni. Eppure sembrava immortale. Come un’icona che non sarebbe mai potuta sparire. Figlia di un ristoratore francese e di una ballerina inglese, si è formata alla Comédie-Française. Però aveva un volto profondamente cinematografico. Già senza età, anche se giovane. Con qualcosa che aveva segnato il suo volto, la particolarissima voce rauca, gli occhi profondissimi. E una recitazione in cui lo stile sembrava essere proprio la mancanza di stile. Modernissima, già avanti in quella sua camminata sulle note di Miles Davis in Ascensore per il patibolo (1957) di Louis Malle. Lo stesso regista di Les amants (1958), film che ha scandalizzato per via del ruolo della ricca borghese di provincia che lascia casa dopo che si è innamorata di un ragazzo più giovane di lei. Al tempo stesso si è cantato con lei e François Truffaut Le tourbillon de la vie in Jules et Jim (1962), il triangolo sentimentale più bello di sempre, un’inno alla gioia, alla libertà con le ombre della morte. Improvvisi scatti, corse (ancora Jules et Jim) ma, anche una perfetta icona per il cinema di Michelangelo Antonioni in La notte (1961), dove Moreau mette dentro tutto il suo corpo. La crisi di una coppia – lei e Marcello Mastroianni – e una scena di sesso che Tarkovskij definì come quella di due persone che stavano per annegare.
Non si può pensare al cinema francese, europeo, mondiale, senza gli occhi di Jeanne Moreau. Come non si può pensare quello statunitense senza quelli di Bette Davis. Che si incarnano, tra gli altri, nella ragazza jugoslava rasata nel melodramma bellico Jovanka e le altre (1960) di Martin Ritt, nella moglie di un ricco imprenditore mentalmente instabile che assiste a un omicidio in Moderato cantabile (1960) di Peter Brook (premio come miglior attrice a Cannes), nella squillo di lusso di Eva (1962) di Joseph Losey e nella donna dipendente dal gioco d’azzardo in La grande peccatrice (1962) di Jacques Demy.
Senza tempo Jeanne Moreau. Come senza tempo è stato Orson Welles. E il loro incontro in Il processo (1962), dove ha interpretato la signorina Bürstner, mostra come quel corpo possa essere manipolato, ingigantito, scolpito come una statua ma reso scattante da una gestualità nervosa. Il cinema, il corpo dell’attore, tra le origini e l’anno 3000.
E solo Jeanne Moreau – ancora più di Paulette Goddard per Renoir – poteva essere la materializzazione cinematografica perfetta della Célestine del romanzo di Octave Mirbeau in Il diario di una cameriera (1964) di Luis Buñuel. Seducente e arida, capace con la sua sola presenza di smuovere la provincia francese, di segnare il cinema del regista spagnolo in una delle sue figure femminile più riconoscibili, al pari di Catherine Deneuve in Bella di giorno (1967).
Chissà quante attrici ha ispirato Jeanne Moreau. Proprio nella sua unicità. Ma, davvero, poteva essere la protagonista di ogni regista del mondo. Ne sarebbe rimasta inghiottita, l’avrebbe vampirizzato. Una di queste è Uma Thurman. Non è possibile pensare a Black Mamba del dittico di Kill Bill (2003-2004) di Quentin Tarantino senza passare per Julie Kohler di La sposa in nero (1968), la vedova prima di sposarsi che va a caccia delle persone che pensano che possano aver ucciso il marito.
Non si può vivere senza Jeanne Moreau. E per alcuni cineasti il suo corpo è stato indispensabile, fondamentale. Da Louis Malle (con cui ha girato anche Fuoco fatuo nel 1963 e Viva Maria! nel 1965), a François Truffaut, da Orson Welles (per cui è stata protagonista anche in Falstaff del 1965, Storia immortale del 1968 e The Deep del 1970) a Joseph Losey che la chiama anche in Mr. Klein (1976) per finire all’incontro fondamentale con Manoel de Oliveira, incarnazione di eroine romantiche letterari, fantasmi, visioni in Gebo e l’ombra (2012) con cui sembra quasi la concentrazione di tutti i film che avrebbero potuto fare insieme. Ma ha anche attraversato giovanissima uno dei capolavori noir di Jacques Becker (Grisbì, 1954).
Senza tempo ma anche senza nazionalità. Come più tardi è accaduto a un altra star francese, Isabelle Huppert e più recentemente a Marion Cotillard. Moreau marchia anche uno dei più bei film di John Frankenheimer, Il treno (1964) con il ruolo di una vedova di guerra proprietaria di un piccolo albergo. E soprattutto il cinema di Tony Richardson, con cui ha avuto una lunga relazione, per cui è stata la diabolica Mademoiselle in …e il diavolo ha riso (1965) e Anna in Il marinaio del Gilbilterra (1967). Ma è anche icona di una nostalgia/fine di un cinema che non c’è più come in Gli ultimi fuochi (1976) di Elia Kazan, o di un cinema del futuro dove poteva vedere immagini pur essendo cieca in Fino alla fine del mondo (1991) di Wim Wenders.
Nel corso della sua carriera ha lavorato, tra gli altri, anche con Roger Vadim (Le relazioni pericolose, 1959), Marcel Ophüls (Buccia di banana, 1963), Anthony Asquith (Una Rolls-Royce gialla, 1964), Marguerite Duras (Nathalie Granger, 1972), Bertrand Blier (I santissimi, 1974), Pierre Granier-Deferre (L’arrivista, 1974), André Téchiné (Souvenirs d’en France, 1975), Theo Angelopoulos (Il passo sospeso della cicogna, 1991), Roberto Andò (Il manoscritto del principe, 2000), Tsai Ming-liang (Visage, 2009) e Amos Gitai (Carmel, 2009).
Ma in una galleria che non sembra avere mai fine, restano ancora alcuni frammenti. Come delle istantanee. Lysianne che gestisce il bordello ed è l’amante del fratello del marinaio Querelle in Querelle de Brest (1982) di Rainer Werner Fassbinder. Il mentore della killer Anne Parillaud di Nikita (1990) di Luc Besson che le insegna a comportarsi (strepitosa la scena in cui le fa mettere il rossetto), film in cui Jeanne lascia il segno anche nelle solo due scene dove appare. La nonna di un fotografo omosessuale e malato terminale che è l’unica persona con cui l’uomo riesce a confidarsi nello struggente L’amore che resta (2006) di François Ozon. E infine, la canzone che esegue, Quand l’amour meurt, nel terzo episodio di Il teatrino di Jean Renoir (1969). Ancora un omaggio a un grande cineasta all’ultimo film. Come è accaduto, come si è visto, anche con Elia Kazan.
E vengono in mente tutti i cineasti nelle cui visioni sarebbe potuta apparire. Da Jean-Luc Godard (solo una parte non accreditata in La donna è donna del 1961) dove è stessa, a Federico Fellini, da William Friedkin (con cui è stata sposata dal 1977 al 1979) a Michael Mann.
Quasi 70 anni di cinema. Presidente di giuria per due volte al Festival di Cannes (nel 1975 e nel 1995 dove ha dovuto fronteggiare un offeso Angelopoulos che non aveva vinto la Palma d’oro per Lo sguardo di Ulisse essendogli stato preferito Underground di Emir Kusturica), dell’Académie dei Césars (dal 1986 al 1988). E nel 1992 le è stato consegnato anche il Leone d’oro alla carriera al Festival di Venezia visto che, scandalosamente, non ha mai vinto la Coppa Volpi.
Era un ricordo che voleva essere una lettera in prima persona. Non ci sono riuscito. Troppo imponente per darle del tu. Troppo vitale per essere ricordata solo attraverso un articolo commemorativo. Troppo e niente. Jeanne Moreau ha marchiato troppe cinematografie. E sembra di vederla dappertutto. Come un’apparizione. Anche nei film dove non c’è. Ma sembra che ci sia sempre stata.