Sergio Rubini – Tutto l'amore per il Sud

Sergio Rubini

Mentre arriva nelle sale il suo nuovo Mi rifaccio vivo, iniziamo a pensare a quanto “epico” sia il cinema del Sergio Rubini regista: perché racconta storie di uomini, ma anche di una forza magica che sembra compenetrarsi profondamente agli spazi del meridione e che permette a un singolo gesto di fondare una dimensione propria, sospesa, “mitica”

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Sergio RubiniQuando uscì nei cinema La terra, venne un po' spontaneo pensare che, in fondo, un titolo così rappresentava il naturale punto d'approdo della carriera da regista di Sergio Rubini: perché se c'è qualcuno che fa pensare alla terra, intesa come punto d'origine del sé, è lui, quell'attore minuto e dalla cadenza pugliese così insistita, quasi un'ancora che lo riporta (e ci riporta) alla terra, appunto. Che naturalmente è quella di Puglia, in quel Grumo Appula dove è nato e che a volte ricorre anche nelle sue regie: un luogo dell'anima, tanto concreto nei suoi paesaggi assolati da trasfigurarsi naturalmente in uno scenario altrove definito quasi western. Magari un giorno sarà bene soffermarci a pensare a quanto “epico” sia il cinema di Sergio Rubini: perché racconta storie che sono di uomini, ma anche di una forza magica che sembra compenetrarsi profondamente a questi spazi e che perciò permette a un singolo gesto (come il lancio delle caramelle dal treno ne L'uomo nero) di fondare una dimensione propria, sospesa, naturalmente “mitica”.

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In fondo la terra di Puglia è quella dove si consuma il sortilegio de L'anima gemella, quasi a ribadire che di zona di confine tra il reale e il fantastico si tratta, o ancora in cui si muovono i fantasmi inquieti de L'amore ritorna: però l'escamotage magico è alla fin fine quello più facile da riconoscere. No, quello che qui si vuole ribadire è un altro concetto: che il fantastico per Rubini è qualcosa che sta nella realtà e che deriva naturalmente dalla stessa. Magari lo capiamo meglio osservando i suoi film non strettamente “di genere”, come La bionda (che ci viene ripetuto essere imperfetto sino alla nausea, d'accordo, ma quanto cinema contiene al suo interno? Quanto coraggio?), in cui lo zoppo Tommaso riesce per un momento a correre, attraversando la barriera fra il desiderio, la possibilità e la vittoria su un destino noir che il film ha già scritto per lui. Oppure Il viaggio della sposa, dove il semplice gesto del velo che, sospinto da una folata di vento, si strappa dal volto di Giovanna Mezzogiorno diventa qualcosa di autonomo rispetto alla vicenda, quasi una versione tutta pugliese della piuma di Forrest Gump.

 

Certo, il percorso è accidentato: Rubini regista è autore, ma spesso prende derive che vorrebbero essere inaspettate, e invece sono soltanto avventate (Prestazione straordinaria, Colpo d'occhio), ma vale sempre la pena inseguirlo con costanza, perché quando riesce a spiccare il volo e a correre (come il suo Tommaso) davvero apre squarci altri. Lo avevamo capito nel 1990 con il fortunato esordio de La stazione, opera tutta in interni, dove l'ufficio di un impiegato delle ferrovie diventava il crocevia di un'umanità divisa e dove il treno era un'altra presenza tanto ingombrante e reale quanto Tutto l'amore che c'èfantasmatica nel suo rompere la calma apparente della notte. Poi erano venute alcune opere interlocutorie, capaci di accendersi in pochi momenti o di franare del tutto, tanto da farci dubitare che si fosse scommesso sul nome giusto. La risalita nel 2000 con il bellissimo Tutto l'amore che c'è, film iscritto nei giovani corpi dei personaggi, adolescenti di due parti d'Italia a confronto e in cerca del proprio sé, subito pronti a perdersi nei paesaggi pugliesi, in gravine che sembravano Grand Canyon e un senso di malinconia perenne, fra genitori che vivono di rimpianti e bambini che devono imparare a percorrere la loro strada.

 

Perché poi il concetto di identità è la vera chiave di lettura di tutto: non a caso a volte serpeggia il sapore della fiaba, del racconto con una morale che guarda ai più piccoli, mentre ai grandi restano i bilanci sulle occasioni afferrate e quelle perse. Il che ci fa capire come Rubini stesso sia diviso fra il successo raccolto come attore e la necessità di doverlo perseguire staccandosi dalla terra. Chissà, forse Fellini aveva notato proprio questi contrasti, questi dualismi che generavano tanto il senso della meraviglia quanto l'inquietudine della perdita, unendoli entrambi in un forte desiderio d'amore, quando lo aveva scelto come suo alter ego per Intervista. Sicuramente avrebbe apprezzato le sue regie più riuscite, perché la trasfigurazione, la magia, il senso della perdita, il desiderio agrodolce di tornare alle origini erano anche pane per i suoi denti.

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