Serie Tv – American Crime Story: Il caso O.J. Simpson

Evita il rischio della banale crime-fiction e racconta il cuore oscuro del caso. Ogni mercoledì su Fox Crime. Un primo outtake da SSMagazine21, ne parliamo giovedì da Sentieri Selvaggi alle h 19

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Un primo outtake da Sentieri Selvaggi Magazine n.21.
Racconteremo Il caso O.J. Simpson e il “Potere Bianco, Cuore Nero” giovedì alle h 19 da Sentieri Selvaggi. INGRESSO GRATUITO

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La Los Angeles in cui, all’alba del 13 giugno 1994, sono trucidati Nicole Brown Simpson e il venticinquenne Ronald Goldman è una città in una devastante crisi sociale. Il sangue di Rodney King è ancora fresco sull’asfalto e l’eco della rabbia feroce esplosa nei riots del ’92 tormenta il sonno delle istituzioni bianche e borghesi della città degli angeli. E’ in questo clima da guerra civile fredda, dove ogni cittadino afroamericano riconosce nell’uomo in divisa con il distintivo LAPD l’aguzzino più che il tutore della legge, che il crollo dell’idolo OJ, l’atleta dalla carriera splendente, l’attore affascinante, scatena una rivoluzione mediatica e sociale che proietta gli Stati Uniti verso il nuovo millennio.

Guardando al successo della serie antologica American Horror Story, la FX decide di affidare a Ryan Murphy, nome sempre più decisivo della serialità statunitense, la produzione di American Crime Story, un nuovo progetto incentrato su alcuni dei casi più noti e importanti della cronaca nera americana (la seconda stagione, già annunciata, racconterà le conseguenze dell’uragano Katrina). Ecco, dunque, svilupparsi in dieci episodi, dieci perfetti atti di un’American Tragedy, le tappe del processo del secolo: People of the State of California v. Orenthal James Simpson. Gli showrunner Scott Alexander e Larry Karaszewski, adattando il libro inchiesta The Run of His Life: The People v. O. J. Simpson di Jeffrey Toobin, evitano il rischio del documentario o della banale crime-fiction e puntano al cuore oscuro del caso Simpson. Oltre la cronaca fedele degli scontri processuali e personali tra una Procura di Stato, che si lascia lentamente scivolare tra le mani un solidissimo verdetto di colpevolezza (le prove contro Simpson sono schiaccianti, dal suo DNA sui corpi dell’ex moglie e dell’amante alle tracce di sangue delle vittime sui suoi guanti e sulla sua macchina), e un dream team di avvocati difensori disposti a tutto per salvare il proprio cliente, la serie affronta anche gli aspetti sociali più imponenti nati dall’arresto di Simpson.

Il caso O.J. Simpson diventa cosi uno strumento ideale per ragionare su un’America che, dopo circa ventidue, non è cambiata per nulla. I temi razziali o mediatici, accennati e non strillati dagli autori, sono le basi consapevoli su cui si appoggiano le strategie o da cui nascono le reazioni di protagonisti, diventati lentamente i veri “eroi” della vicenda. Il carismatico e ambiguo O.J. di Cuba Gooding Jr. perde, dal momento del proprio arresto, la sua centralità narrativa per diventare (il suo corpo più che la sua innocenza) il trofeo finale di una competizione tra procuratori e avvocati, mossi tutti dal voler vedere trionfare le proprie convinzioni ideologiche sulle proprie paure , tutte, allo stesso modo, solidissime e totali. La questione razziale e la sovraesposizione mediatica diventano cosi, secondo i punti di vista, praterie da sfruttare o incubi laceranti per squali del foro come il furbo mediatore dei divi Robert Shapiro (John Travolta tornato finalmente in una prova recitativa convincente) e il paladino dei diritti civili/ furbo telepredicatore ossessivo Johnnie Cochran, per il giovane idealista Christopher Darden e per la testarda ma fragile procuratrice Marcia Clark. Persino per il povero Robert Kardashian, unico amico fedele rimasto ad OJ, protagonista con tutti i suoi dubbi morali, dell’evoluzione morale più coinvolgente dello show.

Il tifo isterico, orgoglioso e identitario per OJ di comunità afroamericane fino a quel punto tenute a debita distanza dall’atleta (interessato per tutta la vita a diventare socialmente “un bianco”), le sensazionaliste prime pagine dei giornali o le dirette televisive ossessive e opprimenti, sono tanti piccoli tasselli indelebili di un affresco terribile e più grandioso, in cui l’America di Trump o delle Kardashian (incredibile il link sussurrato tra il personaggio del padre e l’immagine pubblica delle figlie) non può non riconoscersi. La folle fotografia fatta da Il caso O.J. Simpson, inoltre, regala l’immagine rovinosa di una città sconfitta, Los Angeles, arrivata a vedere la propria sconfitta morale all’interno dell’aula di un tribunale. Ed è proprio questo processo farsesco, basato su colpi di scena improvvisati, monologhi teatrali e personaggi talmente assurdi da sembrare usciti da romanzi di terz’ordine che L. A. trova la sua disfatta. Le sue istituzioni, infatti, non possono avere una sconfitta diversa da questa, contro le periferie marginalizzate e comunità black ghettizzate, disposte ad abbracciare con tutta la loro passione, un mostro conclamato pur di avere finalmente una vittoria.

E’ dunque, proprio in questo racconto atroce che American Crime Story, più che le metafore sanguinose del suo corrispettivo horror, individua l’orrore (catartico) di una società segnata da queste contraddizioni e da questi peccati endemici. E il lento e generale oblio che circonda la fine e la memoria delle due povere vittime (di OJ? Ora non importa più), sacrificate nelle schermaglie di una città allo sbando, è forse il più terribile sintomo di un’innocenza ora, davvero, irrimediabilmente perduta.

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