SERIE TV – Fargo, di Noah Hawley
Anche se non c’è nessuna “storia vera” da riportare fedelmente, Fargo mantiene la promessa di fedeltà al cinema dei Coen: a quella precisa alchimia fra il “moto-immoto” dei suoi personaggi ed i loro discorsi, così dannatamente logici, così tragicamente sbagliati.
La serie, in realtà, non racconta nessun vero fatto di cronaca (come già per il film che aveva preso solo qualche spunto dalla realtà) ed ha un solo punto di raccordo con il film dei Coen (grazie al quale, finalmente, si scopre che fine ha fatto la valigetta con il riscatto del film), ma c’è una cosa alla quale il racconto è davvero “fedele”, ed è proprio lo spirito del cinema dei Coen, che qui, è bene ricordarlo, sono produttori esecutivi. Prima di tutto per la centralità (e incomprensibilità) del caso (caos), che sembra essere il vero protagonista delle loro ultime produzioni, da A Serious Man a A Proposito di Davis: qui è il casuale incontro al pronto soccorso fra Lester Nygaard e Lorne Malvo a generare la lunga catena di eventi (mentre nel film si trattava di un piano ben studiato); ma i riferimenti alla loro filmografia sono numerosissimi, solo per citare i più evidenti: lo sciocco preparatore atletico (Burn After Reading), i primi piani nella bocca dei pazienti del dentista (“i denti del non ebreo”: A Serious Man), i corridoi dell’albergo di Las Vegas (l’Hotel Earle di Barton Fink) e, per finire, lo stesso Lorne Malvo, altro non è che la personificazione del male (“Un uomo come quello … forse non è neanche un uomo”), esattamente come il killer implacabile di Non è un Paese per Vecchi.
Nella serie, anzi, grazie alla connaturata dilatazione temporale (siamo pur sempre di fronte ad un racconto di quasi 10 ore) è ancora più facile riconoscere il “moto-immoto” tipico dei protagonisti del cinema coeniano, che fanno giri lunghissimi ma alla fine ritornano inesorabilmente alla posizione di partenza. È il caso di Lester Nygaard che per un attimo sembra addirittura sfuggire al suo destino di vittima della sua stessa maligna banalità. Grazie alle sue (poche) doti di furbizia ed alle
L’alchimia, comunque, è perfetta perché, come insegna Lynch: è proprio quando lo spettatore è completamente disorientato che è più ricettivo. La serie, infatti, non è certo passata inosservata, ottenendo numerosi riconoscimenti e beffando ai Golden Globe la crime story evento dell’anno (True Detective) soffiandole sia il premio come miglior mini-serie che quello per il miglior attore protagonista che Billy Bob Thornton (Lorne Malvo) ha strappato a Matthew McConaughey (“Rust” di True Detective).