Sex Pistols – Oscenità e furore
Rivisitando la storia dei Sex Pistols (il gruppo punk più famoso della storia probabilmente), Temple è tornato al suo primo amore (il film sulla musica, il documentario musicale, la finzione drammatica calata all'interno di un contesto volutamente realistico). E lo ha fatto regalando un'opera che si lascia alle spalle tanti altri prodotti apparentemente omologhi. Che ha di diverso quindi Sex Pistols da Velvet Goldmine o da The Doors ad esempio? Diciamo innanzitutto che Temple ha risolto interamente il suo film sul piano visivo. Attraverso una riflessione sulla riproduzione (e riproducibilità) del vero, della realtà. E lo ha fatto abbondando da una parte con del materiale assolutamente inedito, dall'altra privilegiando invece uno sguardo critico e attento su quei primi anni '70 che restarono sconvolti dalle arditezze di Vicious e soci. Proprio sul piano visivo, Temple filma i corpi dei componenti del gruppo punk (al quale peraltro dedicò La grande truffa del rock and roll del 1980) calandoli all'interno di una superficie ottica sgranata, incerta, sempre sul punto di cedere e di annullarsi come tale. Ecco allora che le apparizioni di Sid Vicious assumono il carattere di vere e proprie epifanie della materia corporea calata all'interno del colore, della forma e assurgono a geniali intuizioni sulle possibilità del mezzo (in questo caso il cinema) di inquadrare, riprendere e filmare il corpo immergendolo nella dimensione estetica dominante del cinema-in-musica. Ma il punto è proprio questo. La natura del film di Temple è sicuramente documentaria (o per lo meno i propositi iniziali sembrano essere quelli), ma l'impatto della sua regia sulla materia inerte del "documento" fa sì che ogni singolo fotogramma venga attraversato da una tale energia compositiva, da far saltare ogni proposito iniziale per sbilanciare la materia verso nuovi territori. Di che zone si tratti è difficile dire visto che si assiste a degli inserti presi dalle cronache degli anni '70, a delle ricostruzioni geniali dell'atmosfera che c'era attorno alla band ed infine al dialogo tra il regista e Johnny Rotten, sopravvissuto allo scioglimento del gruppo avvenuto subito dopo l'incisione del loro primo ed unico album. Materia ardente quindi. Puro cinema sperimentale scandito da note indimenticabili. Esibizione di un corpo e di una voce infine (quella di Rotten).
Quest' "ultimo valzer" di Temple è tutto da incorniciare.
Francesco Ruggeri