Sguardi dall’Est a Karlovy Vary
La 36.ma edizione del festival ceco (dal 5 al 14 luglio scorsi) ha confermato le qualità di una manifestazione di primo piano nel panorama europeo, purtroppo schiacciata nella stretta di Cannes e Venezia
KARLOVY VARY – Lontano dalle sovraffollate piazze centraliste di Cannes e Venezia, dove una cultura cinematografica ingozzata di glamour stenta ancora a riconoscere persino alla “Berlinale” il giusto ruolo nel panorama internazionale, nel cuore della Repubblica Ceca il Festival di Karlovy Vary ha celebrato quest’anno la sua 36.ma edizione nel segno di una ormai consolidata maturità: una organizzatissima kermesse che si configura come utile testa di ponte nell’Est europeo per chi abbia voglia di sapere cosa accade nell’altra metà d’Europa. Diretto da Eva Zaoralová con passione e competenza, il Festival di Karlovy Vary rappresenta infatti una bella scommessa di funzionalità operativa e culturale. Una scommessa vinta, va detto, grazie alla qualità di una manifestazione estremamente ricca di spunti, ma anche grazie alla sua sede: seicento anni di storia alle spalle per una città termale a un’ora di macchina da Praga, fondata sotto regali auspici nel 1350 e ospite da 36 anni di quello che ormai è la più importante manifestazione cinematografica internazionale dell'area esteuropea. Il clima è quello di un grande kermesse (e del resto questo è un festival di “categoria A”, al pari di Cannes, Venezia, Berlino e pochi altri), ma il bello è che poi il tono generale non è corrotto dalle esigenze mediatiche e spettacolari dei grandi eventi internazionali.
Non che manchino i blockbuster hollywoodiani in cerca di vetrina, i quali trovano anzi nei dieci giorni del festival (quest’anno dal 5 al 14 luglio) il lancio adatto all’uscita sul ricco mercato ceco e più in generale dei paesi dell’Est. Ciò che conta è che poi le 13 sale di proiezione disseminate tra il grande Hotel Thermal (un autentico monumento al design anni Settanta, che funge da quartier generale del festival) e l'intero corpo della città, tra incredibili palazzi neoclassici e art nouveau, sono gremite di un pubblico composto da una bellissima gioventù che di notte dorme in sacco a pelo e di giorno affolla col medesimo entusiasmo tanto la proiezione a sorpresa di “Shrek” quanto quella del più raro dei documentari russi.
Il festival si articola in una ampia serie di sezioni, strutturate e studiate in ragione della natura dei film selezionati. Accanto a una “Selezione Ufficiale” che si suddivide in “Concorso” e “Fuori Concorso”, così, si propone con ampio rilievo il “Concorso Documentari”; ci sono inoltre due grosse sezioni contenitore – “Orizzonti” e “Another View” – destinate a spaziare a 360° tra film di tendenza e opere premiate in altri festival, la tradizionale selezione dei critici di “Variety” e, per quanto riguarda la produzione dell’Est, due sezioni informative come “East of the West”, che rende conto della produzione dei paesi d’area esteuropea, e “Czech Films”, che offre una sventagliata sulla produzione ceca dell’anno. E poi immancabili restrospettive e omaggi vari. Insomma un pacchetto sterminato di film, ai quali si va ad aggiungere, non da ultima, la fondamentale selezione del “Forum of Independents”, una sezione autonoma che ogni anno garantisce un alto livello di proposte fortemente di tendenza.
CONCORSO INTERNAZIONALE
Per quanto riguarda il “Concorso Internazionale”, dovendo fare i conti con la morsa del precedente Cannes e dell’incombente Venezia, il Festival di Karlovy Vary si trova costretto a scegliere la strada di un rigore che tutto sommato non fa male. Quest’anno il livello del Concorso si può dire molto buono, anche se caratterizzato da opere insolite. Il colpo gobbo d’avere in competizione un outsider di gran successo come il francese “Le fableux destin d'Amelie Poulain” di Jean-Pierre Jeunet, autentico caso in Francia, dove è in testa alle classifiche, ha naturalmente lasciato il segno nella Giuria Internazionale presieduta da Krzysztof Zanussi, che gli ha assegnato il Premio per il Miglior Film. Recuperando il tono e lo stile turgido che era stato di “Delicatessen”, ma con una maggiore grazia compositiva, “Le fableux destin d'Amelie Poulain” (che vedremo in Italia distribuito dalla Medusa) è un formidabile strumento di costruzione affabulatoria che decostruisce la realtà quotidiana rimontandola in un’ottica immaginifica e sentimentale. Il film racconta la ridondante fiaba di Amelie, una ragazza cresciuta senza amore ma dotata di un gran cuore, intenta a trasformare le sue giornate in una serie di atti destinati a regalare agli altri quelle attenzioni e quei sentimenti di cui per prima ha sentito e tuttora sente il bisogno. Un’opera notevole per inventiva visiva e narrativa, coraggiosamente e giocosamente in bilico sui sentimenti e messa in scena da Jeunet come un accattivante quadretto naïf ricco di trovate visive (che in qualche caso rischiano d’essere stucchevoli) e illuminazioni narrative.
A fronte di tanta fantasiosa spinta, in realtà, il vero motivo d’interesse offerto dal Concorso di Karlovy Vary è rappresentato da “Chico”, della regista ungherese Ibolya Fekete: il curiosissimo ritratto di un piccolo uomo che attraversa la Storia in bilico sulle sue esperienze di vita e aggrappato alla propria coscienza: cresciuto nell’America Latina tra la scuola dei gesuiti e la militanza comunista del padre, mezzo ebreo e mezzo cattolico, con in tasca più passaporti, infine militante croato sul fronte balcanico… Insomma, la storia di un uomo in cerca di se stesso, raccontata dalla regista magiara (premiata dalla Giuria per la sua direzione) con uno stile a metà tra documentario e finzione, ispirandosi alla figura del suo interprete, attore non professionista che ha vissuto sulla sua pelle parte delle contraddizioni esistenziali che metaforicamente il suo personaggio racconta sullo schermo.
Molto interessante anche il polacco “Czesc, Tereska” (Ciao, Teresa) di Robert Glinski, cui è andato il Premio Speciale della Giuria: il film racconta in un ruvido e sensibile bianco e nero la difficile perdita dell'infanzia di una ragazzina oppressa da una realtà in caduta sui disvalori e sulle debolezze di un mondo sempre più disadatto alla purezza. Invisibile all’affetto domestico (padre ubriacone, madre spenta, sorellina odiosa) e ignorata a scuola, la giovane protagonista trova inutile solidarietà nell’amicizia di una compagna più socialmente disadattata di lei e malsano conforto nelle attenzioni sessuali di un portinaio disabile, costretto sulla sedia a rotelle, che si diverte a seviziare. Una parabola discendente che lascerà la ragazzina nella sua solitudine, raccontata da Glinski forse con un certo manicheismo ma anche, di sicuro, con un intelligente rigore stilistico che tanto più emerge quanto più lo si confronta con il simile scenario offerto dal pessimo messicano, pure visto in Concorso, “Perfune de violetas” (Profumo di violetta) di Maryse Sistach: banale melodramma sociologico sull’abbandono adolescenziale in un paese oppresso dall’angoscia della miseria, che racconta la storia di una ragazzina incompresa a scuola e in casa, costretta dal fratellastro a prostituirsi e abbandonata anche dalla sua più cara amica perché malvista dalla madre di questa.
Rimanendo in area esteuropea, colpisce piuttosto la portante fantastica e fantasmagorica di un paio di strani ma bei titoli proposti in Concorso, entrambi singolarmente sfumati su un piano metaforico e irreale. Da una parte il bulgaro “Posseteni ot gospoda” (Toccati da Dio) di Peter Popzlatev, che si profila come il viaggio fantastico di un sociologo francese destinato a incontrare la placida follia di un’umanità schizofrenicamente divisa tra i propri sogni e la realtà in un villaggio all'incrocio tra Bulgaria, Turchia e Grecia. Dall’altra, il russo “Jady ili Vsmirnaja istorija otravlnij” (Veleni, o la storia mondiale degli avvelenamenti”) di Karen Shakhnazarov, delirante storia di un giovane sposo che, tradito dalla moglie, pensa di vendicarsi seguendo i consigli di uno strano individuo ossessionato dalla storia dei più grandi avvelenatori dell’umanità. In entrambi i casi funziona l’intreccio tra livello metaforico e piano surreale, innescando nelle due opere un singolare sistema di riflessi inconsci, che nel primo trovano una giusta dimensione significante, laddove nel secondo si perdono nel gioco simbolico e nel gusto sterile della ricostruzione storica.
FORUM OF INDEPENDENTS
Ricco di prospettive e tagli trasversali è apparso poi il cartellone del “Forum of Independents”, sezione autonoma del festival che ne garantisce un’ulteriore apertura al cinema di ricerca e di tendenza. Accanto a una selezione di opere di più o meno recente produzione, il programma di quest’anno era diviso in una serie di sezioni, tutte piuttosto interessanti, a iniziare dall’approfondimento dedicato al cinema argentino con sei film realizzati negli ultimi tre anni da una cinematografia che si sta rivelando tra le più vivaci del pianeta. C’erano opere da noi già note come “Mondo Grúa” di Pablo Trapero e lo stupendo “La ciénaga” di Lucretia Martel, ma spiccavano anche altri film che si sono già fatti apprezzare nei festival di tutto il mondo come il curiosissimo e bellissimo “Silvia Prieto” di Martín Rejtman, un impasto fuori norma di commedia surreale e diarismo parodico che racconta l’ossessione di una ragazza di nome Silvia Prieto per una sua omonima; o lo stupendo “Taxi – Un encuentro” di Gariela David, sorta di noir post-realista e intimista che racconta la storia di un ladro di taxi che una notte prende a bordo una ragazzina ferita, in fuga da una tragedia domestica. Tanto il primo è aperto a una razionalità sospinta sino al parossismo nel gioco commediale e filosofico sull’identità, quanto il secondo è ripiegato su se stesso, in una profondità coscienziale che prende le mosse dal topos dispersivo del taxi e del vagare notturno per approdare all’intrusione di due vite in cerca di comprensione.
Sempre il “Forum” s’è fatto poi carico di un interessante omaggio ad Allison Anders, la regista di “Grace of My Haeart”, ottimo esempio di indipendenza losangelina, di cui sono stati proposti tutti i film meno noti, dall’esordio di “Border Radio” (1987) a “Mi Vida Loca” (1993) a “Sugar Town” (1998), sino al bellissimo suo ultimo lavoro, “Things Behind te Sun”, opera sull’adolescenza violata dalla forte carica personale (a giudicare dai ringraziamenti che si leggono in coda ai titoli), che racconta di una rockstar in ascesa e di un giornalista rock i cui destini sono legati ad una traumatica e contrapposta violenza sessuale subita nel cuore dell’adolescenza. Un film intelligentemente fragile e coraggiosamente intimista, che mette in campo una straordinaria sensibilità e uno stile lucidissimo.
Interessante anche la sezione del “Forum” dedicata alla “Digital Independence”, tesa a rilevare le forme di libertà (segnatamente produttiva) garantite dal cinema digitale ad autori che intelligentemente non ne facciano un uso “dogmatico”: otto titoli tra i quali è emerso “Down and Out with the Dolls” di Kurt Voss, punkmovie presentato in prima mondiale, divertente e significativa commedia sopra le righe dedicata al giro underground losangelino, realizzata da Voss con impertinenza e gusto dell’eccesso narrativo d’ispirazione quasi watersiana.