Shakespeare al cinema: "Il mercante di Venezia", di Michael Radford

Il film risulta un compitino perfino troppo perfetto. Le scenografie curate e i ricchi costumi sono al servizio di una co-produzione che impone di non rischiare: dietro la superficie patinata e composta manca lo spazio per l'invenzione, e perfino per la più beneaugurante imperfezione con Al Pacino efficace ma a tratti incolore

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Michael Radford, il regista de Il postino, si lancia in una delle avventure più difficili dal punto di vista cinematografico: intepretare un classico della letteratura e del teatro cercando di non finire vittima del già visto e del già sentito. Un tentativo che il modesto regista, qui alla prova con la diciassettesima rivisitazione filmica del classico shakespeariano, non riesce a sostenere in maniera del tutto convincente. Sotto il profilo dell'intrattentimento popolare il film non è sgradevole, ma se si predende qualcosa di più da una interpretazione seria di Shakespeare, la situazione che il film ci prospetta dà l'impressione di una rappresentazione di maniera mascherata dietro gli orpelli del realismo geografico e vivificata unicamente da un cast di primo piano. Certo, gli spettatori non hanno l'obbligo di una laurea in letteratura inglese per vedere un film (e decretarne il successo, si pensi a questo proposito all'immeritato successo del melenso e patinato Shakespeare in love), né si può pretendere che un regista anonimo diventi improvvisamente un raffinato interprete di classici letterari su cui sono caduti anche registi più ispirati, ma i limiti di un film come Il mercante di Venezia sono talmente visibili da essere propagandati invece come pregi e tocchi di raffinatezza. La lista degli adattamenti cinematografici di Shakespeare è davvero inesauribile e ha prodotto una quantità impressionante di dibattiti, libri e tesi universitarie. Se si sceglie di andare a vedere questa co-produzione italo-britannica bisognerebbe mettersi subito il cuore in pace: Radford ha a sua disposione degli elementi talmente importanti che sicuramente potrà gestirli nell'unico modo che conosce, cioè incanalando scene madri, talenti recitativi e momenti allegorici in un regime descrittivo ad alto tasso di prevedibilità; e, in effetti, si comporta come da copione: costruisce un set partendo dagli ambienti naturali (ambientare il mercante nella vera Venezia dovrebbe servire a conferire realismo alla vicenda, ma contribuisce unicamente a sottolineare il sapore griffato e inautentico dell'operazione); fornisce una lettura fedele e perfino scolastica del testo (il che non sarebbe di per sé un fatto negativo); "comprime" la prova di Al Pacino, un attore istintivo e sanguigno, portandolo, per così dire, a mitigare i toni dell'usuraio Shylock, a tal punto che il grande Al se ne esce con una interpretazione efficace ma a tratti incolore. In questo modo, il film risulta un compitino perfino troppo perfetto. Le scenografie curate e i ricchi costumi sono al servizio di una co-produzione che impone di non rischiare: dietro la superficie patinata e composta manca lo spazio per l'invenzione, e perfino per la più beneaugurante imperfezione. Radford sa che il pubblico verrà a vedere soprattutto Pacino (il vero motivo per cui è stato fatto il film), e per questo lo mette al centro della performance circondandolo di un cast efficace ma sostanzialmente anonimo, anche se Jeremy Irons e Lynn Collins si comportano da bravi professionisti mentre Joseph Fiennes è quasi inespressivo. Al Pacino, che ha visto nel personaggio di Shylock l'ebreo condannato dalla società per un misfatto odioso, una figura scomoda ma paradossalmente attuale in un mondo oggi dilaniato dai conflitti religiosi, viene spinto da Radford a minimizzare le intonazioni personali, e restituisce una figura a tratti sopra le righe e a tratti non pienamente divorata dal suo talento. Sembra quasi che tra gli interpreti e il testo sopravviva una distanza troppo calcolata, e in particolar modo il dolore di Shylock sembra vissuto da Pacino con una nota di ambiguità. Ad ogni modo, se il lavoro degli interpreti è, tutto sommato, l'elemento ancora interessante del film (alcuni lampi dell'interpretazione di Pacino restituiscono nondimeno la dimensione più appassionante del personaggio shakespeariano), a raffreddare il risultato espressivo è una sensazione di composta freddezza. Mentre Radford raccorda in modo preciso i passaggi e controlla attentamente la sua lettura scolastica di Shakespeare, il respiro è troppo perfetto e calcolato, e il film riflette, nella mancanza di imperfezioni, di lampi visionari, la carenza di una condivisione sincera. Dopo tutto, non era necessario "attualizzare" Shakespeare, ma scegliere di farcelo vivere con passione, andando al fondo delle motivazioni che lo rendono ancora oggi vivo e attuale, sarebbe stato molto più utile. Al Pacino aveva già portato Shakespeare sullo schermo, attraverso un film, Looking for Richard, quello si imperfetto, ma in un senso per nulla negativo. Un film documentario che ragionava soprattutto sulla condizione degli attori di teatro nell'America contemporanea, e aveva, a differenza di questo Il mercante di Venezia, il merito di essere dichiaratamente pedagogico ma mai stucchevole, mai maldestramente inautentico.

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