Sharp Corner, di Jason Buxton
Un thriller che fatica a trovare il ritmo, troppo legato ad una riproduzione realistica ed unidimensionale, per una storia che non trova uno sviluppo adeguato. RoFF19. Grand Public

Quando Josh e Rachel arrivano nella nuova casa in mezzo alla natura, sono convinti di aver concluso un affare e coronato un sogno. Quel posto sarebbe stato di grande supporto, li avrebbe aiutati a risolvere qualche piccola incomprensione di coppia ed a ritrovare un desiderio affievolito. Anche per il figlio Tim sarebbe stato l’ambiente ideale, tra la pace degli alberi, lontano dai rumori della città, per combattere i problemi emotivi legati ad uno stato ansioso. La calma apparente nasconde qualcosa che inevitabilmente è destinato ad andare storto. La strada limitrofa alla loro abitazione si rivela infatti una trappola, e nel giro di poco tempo il giardino si trasforma in un cimitero, generando ripercussioni a cascata sulla coppia e sul bambino, a causa di uno stress post traumatico che porta Josh ai limiti della pazzia.
Difficile capire a dovere cosa davvero voglia raccontare Jason Baxton. La storia più plausibile sembra la lenta discesa all’inferno del protagonista, e il racconto di uno stato patologico. Suo è l’unico arco di trasformazione del personaggio, che segue il doppio binario lavoro-famiglia, mentre entrambi cominciano ad andare in frantumi. Lo sguardo segue le anomalie, la deriva psichiatrica, cura insomma l’aspetto psicologico e comportamentale morboso. Eppure Sharp Corner resta in superficie, gravato da una scrittura senza passato e personaggi usati come automi, troppo unidimensionali. Non vuole o si dimentica di indagare le aspettative, continua a girare in un presente ossessivo ed evita di interpretare i segni disseminati ovunque. La crisi coniugale, un bambino problematico, dei pessimi colleghi, tutto cade nel vuoto, fedele ad una riproduzione realistica, che fatica a tenere il ritmo di uno stato febbrile e diventa ripetitiva. L’atmosfera crea delle crepe e delle linee di frattura con la musica e la fotografia rarefatta di una quotidianità nemica, un clima di tensione che sale insieme agli schianti, guardando i feriti intrappolati nelle vetture distrutte e gli occhi iniettati di paura. Una desolazione umana vissuta e trattata con indifferenza, pessimista, che deraglia sulle spalle di Ben Foster, bravo a connettere gesti ed espressioni convulse del protagonista nel processo di estraniamento. Qualcuno oltreoceano, dopo l’anteprima al Toronto Film Festival, aveva azzardato vicinanza con Cronenberg o ad Egoyan, un’idea riferibile allo sviluppo malsano di una passione per il car crash, paragoni rischiosi e totalmente inappropriati.