She Came to Me, di Rebecca Miller

Il film di apertura della 73ª Berlinale disegna una galleria di personaggi curiosa, tra il patologico e il surreale. E Rebecca Miller trova un equilibrio che era mancato ai suoi film precedenti

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Ho paura di crescere e di dimenticare come sono adesso”, dice Tereza, poco prima della sua “fuga” con Julian. Ed è un po’ la frase chiave, che riflette le dinamiche distorte del mondo intorno, quelle che mandano in crisi gli “adulti”. Perché, in effetti, si tratta di personaggi che hanno dimenticato la parte più profonda di sé stessi, aspirazioni e ispirazioni, desideri e vocazioni. Per scivolare nella depressione, lasciarsi andare alle ossessioni nevrotiche o ai comportamenti più discutibili. In fondo, per Rebecca Miller, i due ragazzi innamorati rappresentano la parte più pura, vitale, il controcampo non ancora contaminato e ammalato. E perciò sono proprio loro, nell’ostinazione a mandare avanti una relazione osteggiata da tutti, a innescare le possibilità di un cambiamento delle vite degli altri. Anche in maniera sconvolgente, radicale.

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Del resto, l’universo bislacco raccontato da Rebecca Miller non sembra fatto per le mezze misure. Anzi, è un mondo di folli. A cominciare dai genitori di Julian. Steve Lauddem è un compositore di lirica, in piena crisi creativa ed esistenziale, tra depressione, attacchi di panico, agorafobia. Sua moglie, Patricia, è una psicologa in preda a insopportabili compulsioni per l’ordine e l’igiene, una nevrosi che finisce per sfociare nell’ossessione religiosa e mistica. Dal lato di Tereza, a tenere banco è il padre adottivo, stenografo di tribunale, con l’hobby per le rievocazioni storiche in costume. Un razzista, con la mania del controllo. E poi, in mezzo, c’è Katrina, comandante di una nave mercantile, con l’addiction per il romanticismo e una tendenza all’abbordaggio facile, fino allo stalking. Diventerà la musa ispiratrice di Lauddem, ma rischierà anche di mandare in rovina la sua vita.

Insomma, è una galleria di personaggi curiosa, tra il patologico e il surreale. Ed è proprio questa stranezza a segnare la distanza da ogni risvolto drammatico di una materia potenzialmente ribollente. Rebecca Miller riesce così a trovare quell’equilibrio che era mancato ai suoi film precedenti, sempre appesantiti da un’intelligenza di moda e da un’eccessiva propensione all’ammiccamento. Qui, invece, la leggerezza del tono, sebbene anche furbo, se vogliamo, si apre in un una vena più profonda e umana. Ma soprattutto She Came to Me è un film capace di toccare molte corde, dalla tenerezza (specialmente nei momenti di intimità tra i due ragazzi) all’ironia sottile, dalla commozione all’assurdo. E sembra quasi custodire frammenti di altre storie e film, di tanti altri generi e linguaggi. Sfiorando Giulietta e Romeo e l’opera, il dramma in costume e la commedia romantica. Trova la sua grazia negli interpreti, in particolare Marisa Tomei, che nei segni di stanchezza sul volto, sembra racchiudere la storia meravigliosa di una carriera. Ma soprattutto regala intuizioni strepitose, come l’ultima opera futurista di Lauddem, che chiude il cerchio tra le cose e le forme, la vita e l’espressione.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
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