Sheffield DocFest 2021 – Dei diritti e delle pene

Tre documentari che raccontano di diritti, negati violati o richiesti, dal Brasile fino in Pakistan per arrivare a Pauli Murray, e parlare delle lotte alla discriminazione di genere

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Una delle caratteristiche del festival di Sheffield è quella di intercettare le aree sensibili del dibattito pubblico ed approfondire attraverso la selezione argomenti legati all’attualità. Rientra nella descrizione My name is Pauli Murray di Betsy West e Julie Cohen, inserito nella sezione Into the World del Sheffield DocFest 2021 e dedicato ad una figura chiave per comprendere tante battaglie, alcune da combattere, sull’equità di genere, dentro un pensiero innovativo utilizzato in netto anticipo rispetto ai tempi. Nata nel 1910 e vissuta tra attivismo, poesia, tribunali e religione Murray viene raccontata soprattutto attraverso le sue parole, veri e propri articoli di fede e di lotta sociale, dotati di straordinaria profondità propedeutica e grande capacità rigenerativa, estrapolate da scritti raccolti durante tutta la lunghissima carriera nei diversi campi d’azione, usati come segmento di struttura. Foto e materiale d’epoca, insieme ad un buon numero di persone intervistate, completano il quadro di un film costruito sul passato per parlare al presente, in un raccordo senza soluzione di continuità nel perseguire i diritti inalienabili. Non era facile essere donna e perdipiù nera in un mondo abituato a gravitare attorno al maschio bianco dominante, essere circondata da pregiudizio, diffidenza e a volte derisione, eppure quel modello di tenacia ed incredibile intelligenza sarebbe diventato come un meteorite, con i detriti ancora ad abbattersi al suolo, e quella voce pronta per una platea sempre più disposta ad ascoltare. Un esempio destinato a fare da apripista a campagne della comunità black e lgbt contro la discriminazione sessuale ed il razzismo, problemi purtroppo all’ordine del giorno.

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Sempre sul piano dei diritti si muovono altri due film inseriti nel concorso internazionale. Il primo è Nuhu Yãg Mu Yõg Hãm: This Land Is Our Land! (titolo originale Nuhu Yãg Mu Yõg Hãm: Essa Terra É Nossa!) di Isael Maxakali, Sueli Maxakali, Carolina Canguçu e Roberto Romero, registi indigeni brasiliani preoccupati di raccontare la violenza subita dalle loro terre, e da loro stessi, dall’arrivo dell’uomo bianco (white man si sente ripetere in continuazione come inequivocabile atto di accusa). La narrazione funziona in prevalenza in forma orale e cerca di ricostruire un elenco delle ingiustizie e delle prepotenze, l’espropriazione e il confinamento in una riserva, gli omicidi degli agricoltori, lo sfruttamento delle risorse naturali con sole finalità di lucro. Lo sfondo è costituito dal paesaggio attraversato come fosse una mappatura, uno spazio considerato sacro perché sede di spiriti ed antiche leggende, invaso senza alcun rispetto ed alterato sin dalle fondamenta, vuoti simulacri artificiali al posto di piante che affondano le radici nel magico universo del divino.

Anam Abbas nell’altro film inserito in concorso, This Stained Dawn, segue le tappe di avvicinamento ad un evento eccezionale per il Pakistan, descrivendo in dettaglio la preparazione dell’Aurat March (Marcia delle donne), prevista a Lahore, Islamabad e Karachi in occasione del giorno 8 Marzo 2020 per manifestare contro la mancanza di basilare diritti civili, in un paese dove il diritto allo studio ed al lavoro sono concettualmente subordinati per le donne al matrimonio ed all’accudimento di un marito e dei figli. Una visione retrograda alla quale si oppone il collettivo femminista di Karachi, promotore della manifestazione. E proprio con le immagini e gli interventi delle attiviste la regista riesce a restituire il clima di fervente aspettativa, senza rinunciare a coprire con la speranza le difficoltà da affrontare per ottenere un primo successo. Il discorso programmatico arriva a comprendere i media, innanzitutto web e tv, strumento essenziale di visibilità e alleato obbligatorio della modernità per diffondere slogan tra la gente comune, ma anche nemico da temere in quanto luogo frequentato da fondamentalisti di ogni genere.

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