Signs of Love, di Clarence Fuller

È facile giudicare il disastro presentato ad Alice nella Città. Ha più senso pensare ai limiti dei codici del realismo a partire dallo stile usato per raccontare questa sconnessa storia di redenzione

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Giudicare un disastro come Signs of Love, presentato in concorso nella sezione Alice nella Città della Festa del Cinema di Roma, è facile. Cercare di parlarne decisamente meno. Purché, ovviamente, si riesca a mantenere (o almeno a recuperare) la pazienza davanti a questa disarticolata storia di redenzione con protagonista Hopper Penn, figlio dell’attore Sean che qui si diletta in un’ora e quaranta di espressioni a metà tra un’imitatore di James Dean e qualcuno che cerca di combattere come può la miopia.

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Frankie è un ragazzo che sopravvive come può nella piatta e spietata periferia di Philadelphia. Orfano di madre, con il padre senzatetto e assuefatto al crack, riesce grazie allo spaccio a mantenere la sorella alcolizzata e quello che dovrebbe essere suo nipote, ma che con lui si comporta come farebbe un fratello minore. Un giorno, in uno skatepark, incontra una ragazza sorda di cui si innamora. Tra i due c’è grande sintonia, ma i ricchi genitori di lei hanno deciso che dovrà studiare medicina in Massachussetts. A rischio, però, non c’è solo la relazione tra i due, ma anche i piccoli barlumi di speranza nella vita difficile di Frankie.

Mettendo da parte, ma tenendo presente, una storia scritta con incuria, performance attoriali che hanno dell’imbarazzante (da segnalare Rosanna Arquette, relegata per sua fortuna in una comparsata ininfluente) e l’assenza di qualsivoglia azione in scena che non sia parlare, vale la pena soffermarsi sullo stile con il quale è girato Signs of Love. La vita di strada viene raccontata da Clarence Fuller con inquadrature sporcate quel tanto che basta da acquistare la patina da film indipendente, per poi chiudersi a riccio in dialoghi tirati per le lunghe in un campo e controcampo senza speranza. In assenza di qualsivoglia espressività, l’emozione della scena passa spesso dalla musica, che oscilla dal pianoforte alla chitarra ma rimane sempre malinconica.

Sosteneva Maurizio Grande che il realismo sia una questione di effetto testuale, che quindi non ci sia una tecnica prestabilita per ottenerlo. Per esempio, un’inquadratura al rallentatore può dare una sensazione di realismo maggiore, se usato in un certo modo, di una ripresa continua, in piano sequenza. Il film diventa allora una dimostrazione di come si possano applicare codici e linguaggi riconducibili a un’idea di realismo, senza sfiorarlo neppure lontanamente. Per fortuna si può star certi che chiunque, dopo aver visto Signs of Love, non cadrà nello stesso tranello.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
1
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Il voto dei lettori
2 (3 voti)
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