Simon Chama, di Marta Sousa Ribeiro

Dalla sezione “Nuove Impronte” del Trieste ShorTS, il primo lungometraggio di Marta Sousa Ribeiro è un rigido racconto di formazione che riflette con intelligenza sul potere liberatorio del cinema

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L’adolescente Simon sente su di sé le pressioni di una società dalle cui imposizioni vorrebbe scappare. Tra il divorzio dei genitori ed il rapporto difficile con la madre, Simon non studia per l’esame scolastico finale ma cerca piuttosto una via di fuga dalla monotonia che lo circonda, sia essa rappresentata da un biglietto aereo per l’America o dal cinema, di cui è avido spettatore.

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Simon Chama, diretto da Marta Sousa Ribeiro è un prodotto ondivago e affascinante proprio per la sua natura inclassificabile, che se da un lato racconta il viaggio del protagonista alla scoperta della sua identità e dei suoi desideri desideri, dall’altro è anche uno strumento essenziale con cui Ribeiro matura il proprio cinema fondato sull’ibridazione dei linguaggi.

Ne viene fuori un racconto linguisticamente vivacissimo, influenzato dal Boyhood di Linklater (girato tra il 2015 ed il 2019, cogliendo la reale crescita dei protagonisti) e che si muove dinamicamente tra i formati, le influenze, i prelievi e i piani temporali della narrazione, coagulandosi in lucido saggio sul dominio dell’immagine cinematografica sulla realtà. In questo senso Simon Chama è un film che trae forza dalle intrinseche contraddizioni linguistiche insite in un film che è solo all’apparenza lucido racconto di formazione realista e che in realtà è inscindibile da una dimensione che è eminentemente cinematografia. E così un segmento da Streetwise, documentario cult sui giovani sbandati americani, montato nel flusso del racconto riesce a chiarire il desiderio escapista di Simon meglio di qualsiasi monologo del protagonista ed i flashback si situano al confine tra l’oggettività dell’home movie ed il mélo.

Ma Ribeiro non soccombe alle immagini, piuttosto, colonizzato dalla finzione e dalle iperboli narrative (Simon arriverà addirittura a lanciare un sasso esplosivo contro l’auto del nuovo compagno della madre, che salterà in aria come nei migliori action), il reale, fatto cinema, diventa l’ultimo posto felice e sicuro del protagonista, che forse non a caso, lentamente, si trasformerà inconsapevolmente in una sorta di ibrido tra il flaneur della Nouvelle Vague, i chiaroscurali teenager del cinema di Dolan e gli apollinei giovani protagonisti del cinema latinoamericano.

Ed è qui che il film incorre in un nuovo paradosso, forse il più rischioso per la sua effettiva tenuta. Perché se da un lato è ammirevole il modo in cui la regista riscopra l’originario potere liberatorio del cinema, è indubbio che Simon sia un personaggio fuori dal tempo. Inserito con cura all’interno di un rigoroso immaginario fatto di giovani affascinanti e problematici, il protagonista fatica a creare un’efficace empatia con uno spettatore che ne prevede facilmente il comportamento, allontanandosi da una narrazione che è davvero originale più per come racconta la sua storia che per cosa racconta.

Manca la sua voce, che si indovina a partire da alcune belle intuizioni, legate al dialogo tra passato e presente dei personaggi o alla rappresentazione dell’atmosfera claustrofobica subita da Simon ma che non si concretizza mai in un discorso compiuto. Simon Chama è dunque un sentito elogio dell’esorcismo dell’immagine che però non riesce a liberarsi dai motivi dell’adolescenza al cinema. Forse, come in uno scambio alchemico, la regista ha barattato la liberazione di Simon con la sua prigionia tra le immagini.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
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