Small Axe. Red, White and Blue, di Steve McQueen

L’episodio con John Boyega della miniserie antologica BBC/Amazon Prime Video affronta la questione cruciale della “diversity” tra le strade di Londra, negli 80s come nella UK post-Brexit. #RomaFF15

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È come se i bianchi dicessero: vogliamo la diversity ma non la giustizia sociale. O meglio, saremo felici di tollerarti ma non abbiamo alcuna intenzione di modificare la nostra cultura basata sull’esclusione. Siamo pronti a trovarti un posto al nostro tavolo ma non a cambiare le modalità di relazione con te e la tua gente. Diversity al giorno d’oggi significa avere spazi dove i bianchi possano sentirsi liberali, progressisti e gioire della loro apertura mentale. Una sorta di autocompiacimento. La diversity è stata trasformata in un fattore estetico. Quanto più colorato è il tuo contesto tanto più potrai sentirti progressista e goderne – Jeff Chang

“Ho fatto tutto questo perché poteste dimostrare quanto siamo diversi!”, sbotta ad un certo punto il padre Kenneth al cospetto della famiglia, nel momento in cui il figlio Leroy si lamenta della rigidità dell’educazione ricevuta, alla ricerca costante dell’eccellenza e della rettitudine estrema nello studio e in ogni altro campo della vita (“mi hai tenuto lontano dagli altri ragazzi per non farmi diventare un teppista, ci volevi più inglesi degli inglesi”, dice Leroy). È tutto qui il nocciolo sulla questione ancora urgentissima della diversity per quanto riguarda le comunità delle cosiddette “minoranze”, in USA come nella Gran Bretagna di Small Axe (if you are the big tree, we are the small axe, cantava Bob Marley), miniserie BBC (a metà novembre anche su Amazon Prime) diretta da Steve McQueen e scritta insieme al drammaturgo di origine giamaicana Courttia Newland. Cinque storie autoconclusive che raccontano la vita in Inghilterra delle generazioni provenienti dalle isole caraibiche: all’Auditorium ne vediamo tre grazie all’accordo con Cannes, Mangrove, Lovers Rock, e questa che è la hit del lotto grazie alla lead performance di John Boyega.

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L’inquietudine che serpeggia in Red, white and blue è esattamente quella che chiede ai neri di uniformarsi letteralmente all’addestramento della società bianca, reprimere le caratteristiche della propria aliena superiorità (Leroy è il più bravo e il più fisicamente prestante della sua classe di bianchi in accademia) o al massimo espletarle attraverso la bizzarria d’artista, l’aperta stramberia del musicista (l’amico di Leroy con una vita da cantante di successo): è quanto accaduto anche al black cinema della generazione precedente a questa; una scena, quella attuale, che deve molto all’exploit del britannico McQueen, e che sembra voler ribadire con convinzione che queste storie e questa legacy possono passare da uno stile che rinunci al look stradaiolo (McQueen non cita, per dire, Spike o Singleton come ispirazione quanto Jean Vigo!) al quale per forza di cose vogliamo far combaciare lo sguardo del cinema nero (“perché i neri devono sempre eccellere?”, si chiede il protagonista di Queen & Slim, misconosciuto lucidissimo gioiello della scorsa stagione su questi temi). Barry Jenkins, Jordan Peele, Ryan Coogler, Ava DuVernay beneficiano forse di un’erosione iniziata proprio da 12 anni schiavo, e non fa eccezione il John Boyega di questo episodio, che nella sua ingenuità di volersi arruolare tra le fila della polizia londinese bianchissima degli anni ’80 racconta di quella che in America si chiamerebbe affermative action (sulla storia delle affermative action istituzionali rimando alla puntata sul tema, al solito chirurgica, di Patriot Act di Hasan Minhaj su Netflix). Gli amici gli danno del traditore, i fratelli per strada lo chiamano “il finto bianco”, il padre camionista, malmenato senza alcun motivo dalle guardie, non si dà pace.

La lingua del conflitto è veramente esplosiva, tra lo slang giamaicano e l’inglese imbastardito dei bobby: McQueen non si mette a far risuonare i Clash ma applica l’abituale compostezza del suo storytelling rarefatto, attento qui a scomporre ripetutamente l’inquadratura in una serie di dettagli stranianti (come nella sequenza del pestaggio, o quella del pranzo tradizionale “di famiglia”). Small Axe resta in ogni caso probabilmente l’effort più importante dell’autore, un apporto notevole alle questioni in ballo ancora oggi per i quartieri dell’Inghilterra post-Brexit, raccontate in questi tempi in diretta dalla nuova scena musicale black UK (King Shabaka, Nubya Garcia, Yussef Dayes…), suoni iperstratificati di cui le immagini di McQueen sono davvero una sorta di corrispettivo filmato.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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