Sole, di Carlo Sironi
Il corpo dissociato di protagonisti feriti da traumi nel tempo dell’indifferenza. Con la storia ha tutti i connotati di un romanzo di formazione
Ermanno Tomei (Claudio Segaluscio), protagonista di Sole, è taciturno, ludopatico, ha gli occhi tristi, è abituato a vivere come se il mondo attorno non esistesse, e per guadagnarsi da vivere non disdegna di rubare. Un senso di isolamento, che diventerà la costante del film, arriva subito dopo l’incipit quando lo vediamo circondato di gente e musica, eppure solo. Ermanno è un ragazzo come tanti della provincia romana, che veste sportivo e dietro la noia protegge quel briciolo di vitalità che gli è rimasta, al contrario di una famiglia, che non ha più. Per sopperire all’urgente bisogno di denaro a causa della dipendenza dalle slot machine si presta a riconoscere una figlia non sua, una bimba che appena nata sarà venduta alla famiglia di suo zio. Ed anche a tenere d’occhio chi la porta in grembo, Lena (Sandra Drzymalska), una ragazza polacca, orfana, lei sì con un sogno, anche se pragmatico, raggiungere quel che le resta della parentela in Germania grazie ai proventi della vendita. “Meglio morire per zampa di leone, che per morso di gatto” dice ad un certo punto, citando un detto polacco.
Il tempo è quello dell’indifferenza, dell’apatia, del mare che nel rumore delle onde sembra annullarsi in un indistinto amalgama di emozioni, che si ritrova nel corpo dissociato dei protagonisti feriti dai traumi. Un tempo che diventerà, nel fare emergere questi traumi, scavando tragicamente nel passato, la possibilità di guarire, di considerare il futuro come un’alternativa ed intravedere delle occasioni. Anche per una bambina, non a caso chiamata Sole, che senza aver neanche visto la luce è condannata ad essere un’isola dal rifiuto della madre, e fin dai primi vagiti sembra presagire il peggio. Quello dei figli venduti è un tema già toccato in altri titoli italiani recenti come ad esempio Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis e Una famiglia di Sebastiano Riso. Ma una certa vicinanza anche stilistica il cinema di Sironi sembra averla con un altro autore romano, Claudio Giovannesi, con una scena di ballo ad una festa che ricorda molto da vicino le atmosfere carcerarie di Fiore. In fondo anche Ermanno è un carceriere, un ruolo che dentro il suo arco di trasformazione dovrà vacillare con il risveglio di sentimenti sconosciuti. Cliniche, ospedali, appartamenti, sala giochi, ogni ambiente viene ripreso in una staticità alienante, con delle inquadrature fisse come anticamera della prigione esistenziale, mentre il dinamismo emotivo è assicurato dal succedersi degli eventi.
Tutto ruota sulle spalle dei due giovani protagonisti, con uno spazio non troppo marginale per lo zio di Ermanno e la moglie Bianca, una coppia desiderosa di un figlio e disposta a tutto per averlo, arrivando a comprarlo. Lui cinico e spietato, con un’assoluta mancanza di scrupoli, lei sempre commossa, con un’aria innocente di chi è abituato sempre a sentirsi vittima per giustificare ogni comportamento, anche il più abietto. Ma per i comprimari il regista tiene una linea dritta, sono risolti senza ambiguità, e lascia agli attori principali il compito di rappresentare un cambiamento, già considerando che la storia ha tutti i connotati di un romanzo di formazione. Un percorso che passa dal post-adolescenziale all’ipotesi di una relazione di coppia, dalla maternità bramata o rifiutata, di una paternità, perdipiù non biologica, vissuta come rivincita di un’assenza per colmare un vuoto che può diventare un abisso.
Regia: Carlo Sironi
Interpreti: Sandra Drzymalska, Claudio Segaluscio, Bruno Buzzi, Barbara Ronchi, Vitaliano Trevisan
Distribuzione: Officine Ubu
Durata: 102′
Origine: Italia, 2019