Sono solo canzonette

Nel cinema italiano sono soprattutto Moretti e Vanzina, che nel loro cinema degli anni Ottanta, avevano già avviato un'operazione nostalgia con le cosiddette canzonette.

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Forse è vero che nel sentimento della nostalgia i ricordi vengono prima cristallizzati e poi amplificati nella loro portata emotiva. Ma non si può al tempo stesso affermare che che si tratti di un atteggiamento passéiste, di un modo di guardare con “dolce rimpianto” il passato nel presente. Attualmente c’è un atteggiamento diffuso – che sembra ripetersi quasi con una certa ciclicità – in cui si guarda con affetto verso il decennio precedente. In molti di noi stanno “ritornando dentro” gli anni Ottanta (così come alla fine degli anni Ottanta c’era un atteggiamento quasi nostalgico). Sì, proprio gli anni tanto detestati, definiti come espressione di un imbarbarimento culturale. Gli anni delle vacanze a Cortina, del “New Deal” craxiano, dei primi telefoni in auto, del Moncler, delle Timberland, di Battiato che spopola, della moda delle scuole di ballo sulla scia del successo di quel capolavoro che è Flashdance di Adrian Lyne. E ancora gli anni di almeno due scudetti rubati dalla Juventus (a danno della Roma e della Fiorentina) ma in cui si credeva – fin troppo ingenuamente – che i torti arbitrali alla fine si compensano (ormai invece il campionato di calcio è una sceneggiatura con il finale già scritto in anticipo), ma anche del Mundial del 1982 (quando ancora si tifava per la Nazionale), delle magie di Maradona, delle perfette geometrie di Falcao, del Milan di Gullit, Van Basten e Rijkard (pur essendo interista, come si faceva a non amare quel tipo di calcio?) e l’illusione di un’Inter tornata vincente con Trapattoni in panchina e Brehme, Matthews, Diaz che crossava e Serena di testa che incornava. Gli anni Ottanta hanno regalato pure un certo tipo di musica prima osteggiata e poi ripresa come puro revival in recenti e fortunate operazione commerciali, come i compact One Shot 80. Innanzitutto, proprio con una canzone di Robin Gibb (sì, proprio quello dei Bee Gees che ad un certo punto ha deciso di cantare da solo), ho scoperto della brevissima durata di un sogno. Stavo facendo un sogno lunghissimo, sterminato, sembrava quasi un mélo di Douglas Sirk. Mi addormento sulle note di Juliet, mi risveglio sulle note di Juliet. Nel cinema italiano sono soprattutto Moretti e Vanzina, che nel loro cinema degli anni Ottanta, avevano già avviato un’operazione nostalgia con le cosiddette canzonette. Si fa l’eccezione per un film-compilation come Sposerò Simon Le Bon di Carlo Cotti, un film all’epoca solo bruttissimo ma – rivisto oggi – ancora bruttissimo, ma con qualche squarcio di tenerezza. Ebbene, nel loro cinema, così diverso tra loro, la colonna sonora ha sempre avuto un ruolo fondamentale. Risentendo certe canzoni, si è avvia ogni tanto uno strano transfert della memoria, le immagini dei film si sovrappongono e soffocano talvolta anche i ricordi personali. Sono le note di Scalo a grado di Battiato che riportano in quella spiaggia di Bianca dove tutte le coppie si baciano e un solo single, Michele Apicella, si isola straordinariamente come corpo unico. Ma in Bianca c’è anche un juke-box moderno che emette le note di Il cielo in una stanza in cui in Moretti c’è uno sguardo “romantico” – e forse anche un po’ nostalgico – di quell’utopia ante-sessantottina (la scuola Marilyn Monroe, un metodo pedagogico moderno, all’avanguardia, di rottura, una concezione della matematica come materia sublime ma inutile). Atteggiamento questo, che anticipa quel bellissimo finale nella stanza del commissario, in cui Michele/Moretti ripercorre la Storia di vent’anni d’Italia dentro una stanza. Oggetto storico sono le scarpe, lo sguardo si posa su una porzione di spazio limitata: una finestra di un sottoscala che si apre appena su una strada. C’è in quel finale tutta una nostalgia del passato, nostalgia che sembra proprio avviata dalle note di Gino Paoli. Lo stesso leitmotive (ri/fatto da Giorgia) apre e da il titolo a uno dei migliori Vanzina, Il cielo in una stanza appunto, in cui in un viaggio indietro nel tempo di stampo zemeckisiano, rielabora i set (piazza Euclide) e riassimila i corpi nelle stesse posizioni (i genitori in attesa del figlio che tarda). Ed è forse una coincidenza che sempre una canzone di Gino Paoli dia il titolo a un’altra ottima pellicola di Vanzina, Sapore di mare, forse uno dei migliori film che regge nel tempo, in cui le azioni di un’estate balneare a Forte dei Marmi nel 1964, si materializzano visivamente in memoria 18 anni dopo, sfruttando abilmente lo stesso luogo (la “mitica” Capannina). Nel cinema di/dei Vanzina c’è proprio questa predisposizione a tornare nostalgicamente sul/nel proprio cinema. Senza compiacimento e senza narcisismo ma con un atteggiamento così dichiaratamente spavaldo, forse lo stesso che fa tanto inorridire la critica nostrana (che non distingue, nel loro cinema, la sincerità di queste opere e le omologa alle scialbe operazioni “di plastica” come Via Montenapoleone e soprattutto Miliardi). Si tratta di ritorni frequenti, nell’utilizzo degli stessi set – in I mitici i ladri escono da un tombino su Via Montenapoleone – nel ritorno della musica di apertura con le note di Moonlight Shadow che aprono le immagini sciistiche di Vacanze di Natale 2000, autentico recupero/riciclaggio nostalgico dell’incipit del Vacanze di Natale del 1983.

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In questo film la storia d’amore tra Jerry Calà e Stefania Sandrelli si rialimenta proprio sulle note di Parole parole parole di Mina, l’amicizia tra Claudio Amendola e Marco Urbinati (un percorso orizzontale che s’interseca con quello verticale – quasi “renoiriano” – della differenza di classe) acquista solidità anche sulla musica di Grazie Roma di Venditti, nostalgia recente questa, della comunione nella gioia per uno scudetto appena vinto un anno prima. Ma nel tempo Vacanze di Natale è diventato un autentico contenitore nostalgico da un punto di vista musicale, con i successi del Gazebo di I Like Chopin che ha mandato in estasi adolescenti per tutta un’estate (a proposito, che fine ha fatto Gazebo?) e testimonial del cambio di look della Oxa che sostituisce all’aggressività degli esordi la pura dolcezza di Senza di me. Moretti invece prosegue, negli anni Ottanta, quel suo percorso di vedere il passato con personale partecipazione anche in La messa è finita.Il ritorno di don Giulio a Roma è un continuo “guardare nostalgico” (la visione di Roma dal Gianicolo), ma lo strappo doloroso passato/presente si avverte proprio nel confronto/scontro con la sorella nel momento che questa gli legge la lettera che il padre ha scritto all’amante. La musica di Sei bellissima della Berté soffoca progressivamente quel testo, esplicita in maniera ancora più diretta le parole del padre nei confronti della nuova donna, irrompe violentemente nella memoria alterando e mettendo drammaticamente in evidenza l’utopia di una felicità familiare, utopia che si cerca di rinnegare nel momento in cui don Giulio (nella stanza dove la madre è morta), guarda dalla finestra l’immagine di una madre con due bambini. È lì che don Giulio, abbracciato alla sorella, si ri/guarda, è lì che, come nel finale di Bianca riacquista nostalgicamente il passato per farlo storia. Non la Storia d’Italia, ma una struggente e intensa storia privata. Con Palombella rossa sono Il dottor Zivago di Lean e un successo di Battiato (ancora Battiato, riutilizzato anche in La messa è finita quando canta in coppia con Alice I treni di Tozeur) i referenti nostalgici più immediati, quelli di (come afferma Battiato) “un sentimento popolare…” in grado di contagiare tutto il pubblico davanti una partita di pallanuoto, di provocare quell’uscita da sé, quell’estasi di cui parla Ejzenstejn in La natura non indifferente, e di portarci a gridare, senza vergogna, assieme a tutti gli altri, le parole del grande Bruce Springsteen di I’m On Fire

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