Sorry to Bother You, di Boots Riley

Si muove attraverso continue metamorfosi, innesti, trasmigrazioni di genere e non avendo paura di osare, l’esordio alla regia di Boots Riley. Presentato al Sundance e ancora inedito in Italia

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Una scrollata ritmica della testa, occhi sbarrati e voce nasale: questo era il white guy secondo Richard Pryor, il leggendario attore e stand-up comedian statunitense, nei suoi live degli anni Settanta-Ottanta. Quarant’anni dopo, in un futuro dalle atmosfere quasi distopiche, vicino eppure imprecisato, l’afroamericano Cassius Green – nome che significativamente suona come “cash is green” – di Sorry to Bother You deve trovare la sua voce da bianco per riuscire a vendere inutili enciclopedie da un cubicolo del call center in cui è riuscito a trovare lavoro. Non una white voice alla Will Smith, sia ben chiaro, ma una di chi vive tranquillo, senza debiti o bollette da pagare, come l’attempato collega dalle sembianze di Danny Glover argutamente gli consiglia. Siamo in una Oakland polverosa, derelitta, periferica diramazione di un sistema socio-economico, quello statunitense, nel quale appare come soluzione plausibile se non addirittura auspicabile la factory creata dalla WorryFree Inc. e promossa dal volto fascinoso del CEO Steve Lift, che trasforma la schiavitù in un contratto a tempo indeterminato con vitto e alloggio assicurati. Cassius, divenuto nel frattempo power caller grazie al suo innato talento vocale, lontano dagli amici e colleghi che cercano di organizzarsi in sindacato e dalla fidanzata Detroit – performer artistica e attivista wannabe –, sperimenterà tutte le fasi di questa ibrida e tragicomica parabola in bilico tra riverberi faustiani e lontane allusioni pseudo-swiftiane.
Incipit irrinunciabile di ogni bravo venditore telefonico che si rispetti, nenia martellante che entra nelle vene di Cassius, inalata attraverso quella fake voice intossicante preludio di una mutazione ancor più agghiacciante, Sorry to Bother You si fa locuzione sociale e politica nell’esordio registico del rapper Boots Riley, che firma anche la sceneggiatura impiegando circa sei anni per la realizzazione del film, presentato infine al Sundance 2018.

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Pastiche scontornato, sconclusionato e caotico, il testo filmico di Sorry to Bother You si muove attraverso continue metamorfosi, innesti, trasmigrazioni di genere, non avendo paura di osare e ingolfando le nervature della narrazione con un susseguirsi di gag, sottotracce, tecniche ed elementi visivo-materici. La white voice prestata da David Cross (Arrested Development) che innesca il grottesco viaggio del suo protagonista, divertissement – smussato nel grosso della sua intemperie polemica – in omaggio alla tradizione della stand-up afroamericana che da Pryor arriva a Dave Chappelle, viene utilizzata da Riley come elemento disgregante che prepara e conferma la portata dell’assurdo contenuto dal film. Siamo distanti anche dalle atmosfere di Scappa – Get Out: se Peele vivisezionava i pregiudizi razziali del Nordamerica con linee dritte e nette, qui Riley fa dell’eccesso e dell’ibridazione la formula ritmica della sua critica (più generica) alla società e al mondo del lavoro odierni. La stratificazione, la satira sovraccarica che nella messa in scena e nella cura dei dettagli sfacciatamente artigianale sembra perdersi tra troppi sentieri e rimandi, riesce nella sua psichedelia a restituire la fisionomia di ciò che racconta. L’indolente Cassius e l’iperattiva Detroit – la cui pelle viene abitata alla perfezione da Lakeith Stanfield (Atlanta) e Tessa Thompson (Annientamento) – si compensano e si intrecciano delineando due profili della stessa faccia, generazionale, in continua (consapevole?) mutazione. E in questo patchwork assurdamente ironico, folle, strambo e pirotecnico, ogni tassello è di troppo e necessario al tempo stesso.

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