Sound of Falling, di Mascha Schilinski
Un film ambizioso, nella ricerca di una forma assolutamente personale. Il rischio è di una frammentazione eccessiva, di un compiacimento estetico. Ma il fascino è innegabile. CANNES78. Concorso

In una fattoria nel nord della Germania, nel corso di un secolo, si avvicendano generazioni, famiglie, relazioni, vicende. Collegate dai fili sottili e imprevedibili della Storia, ma, ancor più, dalla sensibilità accesa e mobilissima dei personaggi femminili. Perché è soprattutto attraverso il loro punto di vista che guardiamo le cose, seguiamo il succedersi degli anni e viviamo gli accadimenti. In particolare di quattro ragazze che, nella coralità del racconto, emergono come gli sguardi privilegiati di una narrazione che tende costantemente a farsi “soggettiva”: la piccola Alma, le giovani Erika e Angelika e l’adolescente Lenka. Quattro diversi periodi che non vengono attraversati da Mascha Schlinski e dalla scrittura di Louise Peter secondo un percorso cronologico lineare, ma in un passaggio ininterrotto, “umorale”, da un tempo all’altro. Quasi a voler suggerire una compresenza dei personaggi. O meglio una continuità emotiva, come se quelle diverse, singole personalità non fossero che il riflesso di un’unica grande anima, che veglia su quei luoghi e ne regola il corso lungo il flusso degli entusiasmi e delle disperazioni, dei sogni e delle allucinazioni.
Al suo secondo lungometraggio, dopo l’esordio di Dark Blue Girl, presentato alla Berlinale nel 2017, Mascha Schilinski disegna con Sound of Falling un affresco lunare. Ma soprattutto ha l’ambizione e il coraggio di cercare una forma assolutamente personale. Lavorando innanzitutto sul formato e sulla superficie: un quattro terzi che cambia costantemente pelle, nella variazione della grana e della definizione delle immagini, nella multiforme gradazione della fotografia, nel gioco degli effetti ottici e delle sfocature. E poi sull’alternarsi dei ritmi delle inquadrature, sui piani fissi che improvvisamente si aprono in movimenti di macchina fluidi, a tratti addirittura vorticosi. E può capitare che proprio al margine di qualche movimento, si incroci all’improvviso un personaggio che appartiene a un tempo diverso, come se il dipanarsi delle storie si ripiegasse in curvature di relatività spaziotemporale. Eppure ciò che colpisce di più, forse, è lo spiazzamento continuo del punto di vista, a partire dall’insistito ricorso alle soggettive, perfettamente coerenti con quella sensibilità individuale che detta i toni del racconto. Ma sono soggettive molto spesso apparenti, che non appartengono a nessun personaggio. Suggerendo così qualche presenza misteriosa, fantasmatica.
Del resto, è un film pieno di fantasmi Sound of Falling. A cominciare da quelle figure mosse, sfocate, che abitano le vecchie fotografie o la polaroid di uno scatto di gruppo e sembrano quasi staccarsi dal piano del quotidiano per abbandonarsi un’altra dimensione. Ed è perfettamente coerente con l’atmosfera di morte che aleggia sul film, quella sensazione di fine incombente, di una tragedia che si annida tra la trama nelle storie, quegli istinti suicidi che attraversano le immaginazioni inquiete di tanti personaggi, bambine, ragazze, donne. Ecco cos’è il suono della caduta: la tentazione di lasciarsi cadere nel vuoto, per sfuggire al dolore, al peso dell’incapacità di farsi comprendere e percepire, di realizzare, nel concreto, il magma dei propri sentimenti e delle proprie emozioni. Eppure, i fantasmi sono anche il segno di una traccia che rimane, di una persistenza della memoria, seppur labile, sono l’emblema perfetto di queste visioni e sensazioni che si inseguono nel tempo, riannodando i fili delle esperienze singolari.
Certo, la materia di Sound of Falling è tanta, forse troppa. E, alla fine, è come se ne sfiorassimo solo una minima parte. Nell’elaborato lavoro formale di Mascha Schilinski si può avvertire un eccesso di compiacimento estetico. A tratti, anche, l’azzardo di un ammiccamento cinefilo forzato, come nel sogno della piccola Nelly che si lascia rotolare nel fiume come Mouchette. Il continuo flusso in “soggettiva” delle immagini e del racconto rischia di implodere in una frammentazione forzata e dispersiva, che lascia suggestioni e impressioni più che idee e sussulti del cuore. Eppure, è innegabile il fascino ambiguo di queste continue visioni che affiorano dai ricordi o che emergono dal profondo dell’inconscio. di questi che guardano in macchina, sguardi che inseguono altri sguardi, che chiedono, con insistenza quasi disperata, di essere incrociati, colti, visti, per sfuggire all’oscurità e all’oblio.