SPECIALE "AUSTRALIA" – L'impero del sole. Cinema d'Australia
L'ultima pellicola di Luhrmann si pone forse come il capitolo definitivo della cinematografia australiana, la summa contenutistica definitivamente riconciliata tra Natura e Cultura. Dichiarazione programmatica della contaminatio come utopia finalmente raggiungibile di un cinema meticcio
Abbraccio storicamente ambiguo e spesso inquietante, magistralmente raccontato da Peter Weir, forse a oggi il più grande regista australiano di sempre, che con i magnifici Picnic ad Hanging Rock (1975) e L'ultima onda (1977), imprigiona le sovrastrutture borghesi dell'uomo occidentale dentro l'oscurità magica del mondo primordiale, del continente “ribelle” dimora del perturbante: tematiche che peraltro Weir ripropone anche nelle sue migliori scorribande hollywoodiane (Mosquito Coast, Fearless, Master and Commander, per certi versi Witness). Un po' come la Jane Campion di Sweetie e Un angelo alla mia tavola, che con il sottovalutato Holy Smoke (2000), davvero realizza un apologo filosofico sul confine tra sacralità e scienza. Perchè la deriva esoterica di molto cinema australiano nasce dallo shock percettivo di fronte alla bellezza e al mistero della Terra, compiendo così quasi un percorso inverso al Mito della Frontiera americano, così fiducioso nel transito e nelle prospettive del territorio. Il paesaggio australiano diventa metafora di una meta impenetrabile e rispettata, meno narrativa e riconciliata rispetto agli spazi d'America, ma più astratta e concettuale, tanto plasmabile a un discorso d'atmosfera quanto alla radiografia di un disagio culturale e comunicativo. Si veda l'importanza capitale che, nell'arco di un decennio (1971-1981), ricopre il territorio australiano dall'imprescindibile L'inizio del cammino (Walkabout, '71) di Nicolas Roeg, dove, come scrive Tiziana Battaglia nel numero 1 di Terra Lontana, "la protagonista si spoglia della sua divisa di scuola a mano a mano a mano che il suo girovagare nell'outback la porta contatto stretto con la natura, per finire totalmente nuda a simboleggiare il suo arrendersi a una sessualità matura e a una innocenza perduta", al deserto postatomico del cult di George Miller Interceptor – Il guerriero della strada, terra di conquista per bande punk e disperati giustizieri senza famiglia. In entrambi casi la sintesi tra la civiltà e il territorio non raggiunge un equilibrio.
In tal senso Australia davvero si pone come il film definitivo del cinema australiano, la summa contenutistica definitivamente riconciliata tra i due mondi. Dichiarazione programmatica della contaminatio come utopia finalmente raggiungibile di un cinema meticcio, il film di Luhrmann celebra Fleming e Hawks, (ma anche Miller e Gibson, con quest'ultimo che nella sua istintualità barbarica rispecchia perfettamente la propria adozione australiana) ricostruisce coordinate cinematografiche classiche (il western, il melodramma, il war movie) riposizionandole geograficamente in un mondo che rivendica l'istinto e l'empatia immediata attraverso il camaleontismo formale. Che è forse una nuova ABC dello spettacolo e del cinema. E di una scuola finalmente consapevole della sua eterogeneità.