SPECIALE "BUONGIORNO NOTTE" -La 25a ora del cinema italiano

E allora quella del Moro che se ne va via per strada, in pace con se stesso e con il mondo, con quella cavolo di Storia che lo ha pietrificato troppo presto, diventa la 25a ora del nostro personale e italianissimo sogno. Di quell'Italia che sarebbe potuta essere, di quel film che sino all'ultimo tenta desidera e vuole essere.

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L'affaire Moro poco interessa, per modo di dire, alla poetica di Bellocchio, o poco interessava prima che la Rai gli commissionasse il lavoro. Ciò che dal cuore di Bellocchio sgorga, da sempre, sin dal necessario I pugni in tasca, è quella compulsione tremendamente inevitabile di rimettere in sesto i tasselli indomabili della famiglia nella sua disgregazione. Di farli uscire dalle tasche quei pugni e di azionarli in qualche modo, dando sfogo ad un lavorio che dalla mente (dall'inconscio) si travasi direttamente nel corpo, nell'azione ultima: nel fioretto del Picciafuoco nel prefinale de L'ora di religione, o nell'onirica apertura della celletta di Aldo Moro da parte di Chiara (Maya Sansa) nel finale di Buongiorno, notte; la famiglia, dunque. Si parlava di madri ne L'ora di religione, di padri in Buongiorno, notte. Si mandavano a quel paese i genitori nel penultimo film di Bellocchio (letteralmente: "bisogna mandare a fare in culo i padri e le madri radicalmente" dice Picciafuoco), il porcamadonna (madre) e il porcodio (padre) non erano altro che la stigmatizzazione verbale di quel rifiuto, o meglio, di quel rimosso, si cerca di riportarli indietro e di salvarli (qui, solamente il padre) invece in questa bellissima, incredibile ultima opera del piacentino. Era dedicato alla mamma il film precedente, è dedicato al padre del regista quest'ultimo. Perché come dice giustamente Federico Chiacchiari nella sua recensione da Venezia (crediamo la prima in assoluto ad aver centrato il cardine del film in maniera inequivocabile), Moro, soprattutto l'Aldo Moro di Bellocchio, è quel padre che noi tutti avremmo voluto salvare per costruirci un (vero) dialogo, per capire e conoscersi, per continuare a sperare e dunque a sognare. E' questo quello che voleva fare Chiara, continuare a sognare permettendo a una generazione intera di continuare a farlo. Che bello allora sarebbe stato se avessimo potuto scegliere, magari con un piccolo montaggio personale, di seguire il sogno/desiderio di Chiara e svegliarci insieme alla fine del film (della Storia) con una sensazione nuova, come di chi avesse percepito un cambiamento, la realizzazione di un desiderio inconscio. E allora quella del Moro che se ne va via per strada, in pace con se stesso e con il mondo, con quella cavolo di Storia che lo ha pietrificato troppo presto, diventa la 25a ora del nostro personale e italianissimo sogno. Di quell'Italia che sarebbe potuta essere, di quel film che sino all'ultimo tenta desidera e vuole essere. Norton come Moro, Lee come Belloccio, verso un cammino da portare a termine anche solo con il potere dell'immaginazione, che è propria del Cinema. Per questo va in un certo senso punito il ragazzo che scrive la sceneggiatura intitolata proprio "Buongiorno, notte". Punito proprio perché fautore di una scrittura che non permette al film di risolversi veramente in un happy end. Una scrittura, una fantasia quindi, che non è riuscita a fermare il convoglio impazzito della realtà, della verità, che al cinema poco ci serve e interessa, checché ne dica Mario Pirani su Repubblica. Quindi non permettendoci, una volta per tutte, di continuare a sognare. E' questa la forza maggiore di Bellocchio, riuscire ad intessere realtà (un evento storico fondamentale per noi Italiani) e fantasia (quindi sogno, ma, attenzione, quindi cinema!) senza mai e poi mai far del torto alla ragione. Questo è il cinema che ci piace. Scusate ma provate ora a rapportarlo con l'insana tendenza di certo cinema a tesi, di certo cinema inglese. Lo ripeteremo sino allo spasimo che il cinema deve mostrare, non di-mostrare. Da quest'altra parte invece abbiamo il solido e sempre onesto Bellocchio che non vuole e non ha bisogno di dimostrare niente, di insegnare nulla, di indottrinare nessuno, e sobrio come un vestito della domenica gioca magistralmente con il contrappunto fortissimo nato dallo scontro delle immagini televisive (della Storia) con quelle dei suoi spettatori/brigatisti, semplici e (forse) stupidi mangiatori di minestra (questa la finzione). Perché a Bellocchio non interessa porsi dalla parte di Moro, o delle BR, o di Chiara. Ma cosa avrebbero fatto al posto suo un Loach o un Mullan, invece? Con che impassibile decisione avrebbero usato il loro scalpello per incidere nella pellicola i caratteri risoluti e manichei del loro cinema? Ci avrebbero fatto saltare dalla poltroncina per portare direttamente le nostre mani al collo dei brigatisti, ce li avrebbero fatti ammazzare guardandoli direttamente negli occhi. Oppure ci avrebbero fatto piangere sino allo sfinimento insieme al corpo tumefatto e impaurito di un irriconoscibile Aldo Moro. Saremmo stati dalla parte di Moro, contro lo Stato, tifando per Chiara e anelando una storia d'amore tra la stessa e il ragazzo della sceneggiatura, tanto per dare un risvolto rosa che piace sempre allo spettatore. Ma a cosa sarebbe servito tutto questo? A chi avrebbe giovato? Alla Storia italiana forse? Alla verità forse? Al cinema addirittura? No, solo ad una plebe elettorale da asservire ai propri precetti politici, lontani dal vero cinema e dalla verità, la quale al cinema non è mai esistita e mai dovrà esistere. E qua le giurie glissano sul film perché Moro è cosa nostra, solamente italico, senza registrare minimamente la forza di un cinema che è lontano anni luce dalla cronaca nostrana, ma vicino all'universalità che è propria dei sogni, ossia nulla di più esportabile.

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