SPECIALE "Cinderella man" – La lotta che si esprime nell'amore

Howard recupera la vita, il tempo e lo spazio del passato e li fa rivivere come presenti davanti ai nostri occhi per esprimere la tensione corporale e spirituale dell'intima lotta per l'esistenza, una lotta che si esprime nell'amore di una presenza viva in un corpo vivificato e vivente nel suo essere nella carne e nel mondo, per la carne del mondo.

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"La lotta, che si inasprisce quando sono in gioco le basi materiali della mia vita, è fonte di creazione nella tenzone spirituale, ed è origine della manifestazione dell'esistenza nell'amore" (Karl Jaspers)

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Ritornare ad abitare il tempo e lo spazio (del cinema) come concreta presenza. In Cinderella man il cinema di Ron Howard entra in scena come pura essenzialità (classica) annullando ogni distanza tra immagine e parola, anima e corpo, sensibile ed intelligibile ed esponendosi ad una temporalità perennemente in atto in una abbracciante e compresente parusia. Così Howard recupera la vita, il tempo e lo spazio del passato (l'avventura esistenziale del pugile James Jay Braddock nell'America della Grande Depressione) e li fa rivivere come presenti davanti ai nostri occhi per esprimere la tensione corporale e spirituale dell'intima lotta per l'esistenza, una lotta che si esprime nell'amore di una presenza viva in un corpo vivificato e vivente nel suo essere nella carne e nel mondo, nel suo essere (ancora una volta) per la carne del mondo. Allora in Howard lo slancio del corpo è tutt'uno con quello dell'anima in una tenzone, che è anche tensione e intenzione, spirituale incarnata dalla singolare presenza di un uomo e dal senso che essa porta con sé; il suo è un resistente e, al tempo stesso, fragile abbraccio cattivante il ritmo delle passioni, come nella struggente scena dei bambini che abbracciano il padre ritornato vincitore da un incontro, una scena in cui si avverte tutto il peso dell'umiltà della carne amante/amata presente al loro amore, quindi i corpi di Ron Howard non sono l'espressività di una traccia disseminata e mancante, assente nel loro continuo trascendere i limiti dell'inquadratura, ma liturgico ri-flettersi in essa, grazie alla sua sensibilità di catturare, più che l'attesa del loro ritorno, l'emozionante movimento della loro intimità incarnata che affiora sulla loro pelle e su quella delle immagini nel loro essere offerti ad esse come vivificante presenza. Qui allora non possiamo non riallacciarci all'incompreso Howard di The missing e alla sua putativa paternità fordiana. In Sentieri selvaggi Ethan/John Weyne, dopo aver riportato a casa la nipote Debbie/Natalie Wood, ritorna alla solitudine del deserto, ma Ford costruisce intorno a lui una nuova dimora, il cinema, lasciandoci in attesa di un suo ritorno, di una sua a venire presenza; in The missing lo sguardo di Howard si rivolge alla giovane Lilly/Evan Rachel Wood, scomparsa (alla vista), per riportarla a casa. Così Howard chiede umilmente di entrare nel mondo di Ford mantenendo una distanza donativa che gli permette di creare la riserva di senso di una relazione che gli consente di rimettere le immagini del suo cinema a se stesse e di concepire il cinema stesso come un'altra dimora in vista della riappropriazione, nella parusia, nella presenza di sé nella carne del mondo. Alla fine non si può non ritornare a casa e continuare ad avere un mondo. "La rivoluzione Howard la fa attuandola nella conservazione" (come sostiene Francesco Ruggeri), infatti l'amore che sostiene nella lotta e nel ritorno in una dimora in cui ci si ritrova, ci si riconosce e ci si raccoglie, conserva (nel significato religioso di salvare) dal senso tragico e dolorante della realtà. "Padre, quelli che mi hai dato, voglio che siano anch'essi con me dove sono io" (Giovanni 17, 24).

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