SPECIALE DUE GIORNI, UNA NOTTE – Uscire dalla (grande) depressione

marion cotillard in due giorni, una notte

Nervosa, sempre tremolate, mai immobile: l'inquadratura dei Dardenne insegue e non si stanca mai. Dalla (grande) depressione, personale, economica e mondiale allo stesso tempo, si esce con la comunicazione, con la riappropriazione dello spazio comune: urgenza resa esplicita dall'ingombrante sguardo dei due registi.

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La crisi c'è, esiste, eppure è intangibile. Con Due giorni, una notte Jean-Pierre e Luc Dardenne colgono perfettamente questa smaterializzazione e mettono in luce la sua doppia natura: se da una parte è l'economia ad essere sfuggita completamente dal controllo del discorso pubblico, relegandosi in un mondo a sé stante fatto di numeri e sigle indecifrabili, l'altra faccia della medaglia dimostra chiaramente che la crisi è soprattutto antropologica. E non si fa riferimento superficialmente ad una rivendicazione di valori ormai perduti col tempo. Sì certo, è la logica del profitto che porta a considerare i lavoratori come semplici numeri di un'equazione (perché fare in diciassette le cose che si possono fare in sedici?) e a considerare sacrificabile un collega per un guadagno temporale (i mille euro di bonus), legittimando qualsiasi ragionamento utilitaristico: e guardando il film ci si chiede se nella storia dell'uomo a fronte delle vittime di oggi si possa ancora trovare un colpevole. Ma il vero problema, appunto, è nella considerazione. Si è perso lo spazio comune di dialogo in cui riconoscersi per prima cosa, come dei corpi, delle identità.

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E se parliamo di corpi, la scelta di Marion Cotillard non deve passare inosservata. Il cinema dei Dardenne, per la prima volta, apre le sue porte ad un fisico da grande produzione, una faccia nota in netta controtendenza alle loro scelte dal sapore spesso neorealista. Riflessione meta-cinematografica o meno, risiede qui la prima, enorme, intuizione narrativa: l'attrice non è né venerata né messa su un piedistallo, la sua funzione viene degradata ed abbassata ai limiti dell'umanità, il corpo di Sandra è devastato. Marion Cottillard è poco più di un fantasma, non solo agli occhi degli altri, ma estranea al suo stesso sguardo (se fossi al loro posto, anche io mi condannerei). La protagonista è il primo prodotto della depressione che dall'azienda all'individuo, passando per la famiglia, non risparmia nessuno. Solo da questa condizione di totale disperazione può partire un discorso che, in Due giorni, una notte, tenta di ricostruire l'immagine, qualsiasi essa sia, ormai totalmente in frantumi.

Il viaggio di Sandra ricade perfettamente nel dualismo che su vari livelli caratterizza tutto il film, l'opposizione tra interno ed esterno, singolo e comunità. Seguendo una dinamica quasi patologica, ma in realtà terapeutica, la ripetitività di ogni incontro imposta la direzione del film su una circolarità apparentemente senza uscita. Quella che per Sandra è una coazione a ripetere è in realtà un processo spiroidale che piano piano aggiunge un tassello di vita con cui scontrarsi e quindi riconoscersi. Ed allora il secondo grande fantasma di Due giorni, una notte è un cinema per forza di cose invisibile, ma che costantemente rivendica la sua presenza e pesantezza. Il suo compito è quello di scendere in campo per incontrare una realtà e raccontarla nella negatività che caratterizza qualsiasi esperienza (estetica, ancor prima che artistica). Si è catapultati continuamente in strada, ogni incontro è un attraversare: un quartiere, un pezzo di periferia, si chiedono indicazioni, si prendono appunti, tutto per giungere infine ad uno sguardo. E fisicamente la mdp dei Dardenne è sempre lì, a ricordarci che il cinema non solo è il primo tra i testimoni della sua epoca, ma è anche l'unico in grado di ricomporre i suoi pezzi rotti e sparpagliati. Nervosa, sempre tremolate, mai immobile: l'inquadratura dei Dardenne insegue e non si stanca mai. Non c'è nessun intento documentarista, la voglia di celarsi e sparire dietro alla storia è assente, quello che importa è catturare l'attimo diventando parte di esso.

Ed ecco che la rivendicazione non è solo temporale, ma innanzitutto spaziale. Dalla (grande) depressione, personale, economica e mondiale allo stesso tempo, si esce con la comunicazione, con la riappropriazione dello spazio comune: non più individuabile nel possesso ma nell'appartenenza ad un contesto politico, urgenza resa esplicita dall'ingombrante sguardo dei due registi. Sandra non è più una scelta tra un bonus ed un malus, ma una persona proprio come ogni individuo coinvolto nella votazione. Certo, le due differenti polarità sussistono nella loro separazione, è utopico sperare in un dialogo senza conflitto. Ma quello che conta è che, per poter sopravvivere nel mondo, ogni storia abbia il suo volto. E che questo sguardo possa ancora decidere per se stesso: il più grande regalo dei Dardenne a noi spettatori.

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