SPECIALE "E venne il giorno" – Scolpire il vento

e venne il giornoOrmai non ci si illude neanche più che la catastrofe sia solo fuori dal proprio guscio isolato. Non c'è nemmeno più, il guscio isolato: fuori dai villaggi e dai condomini, un peregrinare senza sosta da non-luogo a non-luogo. E soprattutto, una vera e propria pedagogia del fuoricampo

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e venne il giornoOrmai non ci si illude neanche più che la catastrofe sia solo fuori dal proprio guscio isolato.

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Non c'è nemmeno più, il guscio isolato/isolazionista dell'America metaforizzata in The Village e Lady in the Water. E l'unico guscio che c'è, la villetta-modello in cui Elliot e gli altri si accampano brevemente, è finto. Fuori dai villaggi e dai condomini, un peregrinare senza sosta da non-luogo a non-luogo: eccola, La guerra dei mondi che Shyamalan si riprende dalle mani di Spielberg con gli interessi. E soprattutto, una vera e propria pedagogia del fuoricampo.

La comunità si disgrega e si consuma da sola, come tutto ciò che, racchiuso dai bordi di un'inquadratura, si consuma sotto l'insostenibile pressione del fuoricampo. Il virus non fa che rendere più evidente ciò che lo stile di Shyamalan, la sua mistica della fissità frontale, ha sempre indicato: la pressione del fuoricampo dove fuoricampo pare non esserci. Soprattutto quel fuoricampo che sta lì, dentro al campo, e che non possiamo vedere: il tempo. Il vento, da cui i personaggi scappano e che sta comunque sempre lì con loro nel quadro. L'indugio di Shyamalan nell'inquadratura sa che da qualche parte lì dentro, in quella spessa coltre di vuoto che sono le sue inquadrature, c'è il tempo, e c'è il vento.

La comunità si disgrega in nuclei sempre più piccoli, fino a scoprire che la cellula, che dovrebbe essere il più piccolo mattone della comunità, non esiste. O meglio: l'individuo, con la caparbia resistenza della vecchia a voler tracciare un limite tra ciò che è mio e ciò che è tuo, crolla tale e quale a come crolla la comunità.

Resta solo l'amore. Solo l'organismo bi-cellulare della coppia sfugge alla contaminazione perché la è, la contaminazione. È esperienza impossibile del tempo, e del vento, che agitano quietamente un'inquadratura che non trova più i propri confini, perché Elliott e Alma che corrono l'uno verso l'altra sono presi, ancor prima di prendersi, nell'abbraccio con cui il campo accoglie e dissolve il fuoricampo: il campo-controcampo. L'esperienza del fatto che è il campo stesso a non esserci.

Già. Bisogna tornare al grado (“ground”) zero per scoprire che questo grado non c'è. Tornare a un racconto ridotto a macerie fumanti, che butta lì con sublime goffaggine una serie di “battute rivelatrici” di imbarazzante estemporaneità. Tornare alle “vedute” statiche, ai punti morti (per quanto impeccabilmente orchestrati). Tornare all'abc del linguaggio, come fanno Alma e Elliott nelle loro casupole comunicanti, “antenate” dei telefonini e dei videofonini che lungo tutto il film intercettano il fuoricampo per illudersi che ci sia un “di là” ben distinto dal “di qua”.

Solo così si può sentire tutta l'inadeguatezza e fragilità dei confini (e quindi del linguaggio). Solo così l'attesa non è più soggezione al cospetto del tempo onnipotente e mortale, ma (dolce) attesa che il test della gravidanza diventi rosa.

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